IDEE VISIONI

David Forster Wallace e i suoi demoni

Christian Raimo, giornalista e scrittore, ha raccontato per la rivista "Internazionale", un inedito David Forster Wallace a dieci anni dalla sua morte, avvenuta nel 2008. A distanza di un anno, vale la pena riproporre la riflessione sulle "intuizioni" di questo intellettuale e sul suo modello di pensiero critico

Cosa avrebbe scritto David Foster Wallace a proposito dei social network? Come avrebbe raccontato il movimento Occupy Wall street? E l’elezione di Donald Trump? E la crisi della democrazia rappresentativa? E il #MeToo? C’è una dolorosa ovvietà nel constatare il vuoto di riflessione e d’immaginazione, di parole, di concetti inediti, di quella complessità febbrile che ha lasciato uno scrittore come lui, nel racconto e nell’analisi del mondo. Il Wallace sempre politico, sia quando interveniva nel dibattito pubblico sia quando scriveva romanzi, racconti, saggi, reportage. L’autore che genera allo stesso tempo ammirazione e inadeguatezza in chi lo legge.

Il 12 settembre 2008 Wallace si impiccò nel garage di casa a Claremont, in California. Per anni aveva seguito una terapia antidepressiva che funzionava, poi aveva dovuto sostituire un farmaco e le cose erano andate di male in peggio. Lasciava una moglie con cui si era sposato da poco, un romanzo incompiuto, circa 10mila pagine pubblicate (un numero impressionante per un autore di 46 anni, così raffinato e poliedrico), e lo strazio in tutti coloro che avevano interpretato la sua analisi delle tossicità e delle depressioni di massa come un esorcismo, e che ora sono costretti a ripensarle come una profezia.

C’è un prima e un dopo quel 12 settembre. «Che Wallace non fosse largamente riconosciuto come un “grande” scrittore quando era vivo è un fatto che è stato velocemente dimenticato», scriveva Laura Miller nel 2015, mettendo in guardia sui rischi della trasformazione dello scrittore in icona, della sua santificazione. Dopo la morte, la sua figura è stata riscritta secondo i canoni di un’anima in pena, rappresentante di una generazione sconfitta, critico della società finito per diventare vittima della sua stessa sociopatia.

Per chi ha cominciato a leggerlo dopo la sua morte il problema è stato evitare di farsi condizionare dalle tracce di depressione nelle sue opere, non leggere la sua iconoclastia come un sintomo di autodistruzione o la sua poliedricità come mera ossessione. A volte l’editoria e il giornalismo hanno peggiorato le cose: promuovere il memoir sul lutto della moglie Karen Green, Il ramo spezzato, presentandolo come una specie di spin-off postumo della bibliografia di Wallace e non come un libro che non nomina nemmeno lo scrittore per nome e cognome è fuorviante; e allo stesso modo è meschino incentrare il dibattito su Wallace e sulla sua opera basandosi sulle parole di Mary Karr, che lo ha accusato di molestie e stalking.

Uno scrittore di nicchia
Io l’ho letto la prima volta nel 1997: in una libreria internazionale di Roma lo scrittore Tommaso Pincio mi consigliò questo autore di 35 anni che scriveva saggi narrativi sul tennis, su David Lynch, sulla televisione, sulle fiere di cibo nell’Illinois, con uno stile immaginifico, divertentissimo, tutto in accumulo. Comprai la raccolta che in inglese s’intitola A supposedly fun thing I’ll never do again; due anni dopo facevo una prova insieme a Martina Testa per tradurlo in italiano.

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