LA PAROLA

Deportazione

Sostantivo femminile che deriva dal latino deportatio e quindi dal verbo deportare. Indica, si legge nel dizionario Treccani, la pena attraverso cui il condannato viene privato dei diritti civili e politici, allontanato dal luogo del reato commesso o di residenza e relegato in un territorio lontano dalla madrepatria.

Il termine deportazione, si continua a leggere nel dizionario Treccani, per estensione indica anche il trasferimento coatto di gruppi di condannati politici o di minoranze civili, invise o sospette, in campi di lavoro o di concentramento.

A differenza del confino, che è l’obbligo di soggiornare in una località, e l’esilio, che vieta di risiedere nel luogo di origine, quando si parla di deportazione si descrive un trasferimento a cui segue la restrizione in una zona o una vera e propria reclusione.

Una pena usata fin dall’antichità: si portano via dai luoghi di origine coloro che si ritengono pericolosi, per spezzare i legami, per fiaccare l’animo e spesso si deporta – e quindi si confina – il “colpevole” in un luogo impervio, difficile da raggiungere e da cui è impossibile scappare.

In epoca romana le deportazioni avvenivano di solito verso le isole – la deportatio in insulam – mentre dal Cinquecento si assiste alle prime deportazioni che hanno l’obiettivo di colonizzare alcuni territori (pratica inaugurata dalla Francia con il Canada) e sono molti i paesi europei che la utilizzano fino all’Ottocento, talvolta come alternativa alla pena capitale.

Ma nel nostro immaginario il termine viene associato di solito alle deportazioni di massa: mezzi per garantirsi il controllo politico e sociale di un’area, misura di pulizia etnica, tecnica per ridurre gruppi di persone in schiavitù.

Sono deportazioni di massa quelle degli ebrei da parte dei babilonesi (collocata tra il VII e il VI secolo avanti Cristo) o quella degli indiani rom voluta dai turchi ghaznavidi nell’XI secolo. E ancora, avvicinandosi ai giorni nostri, le deportazioni del XX secolo finalizzate al genocidio: quella degli armeni per mano dell’impero Ottomano (1915 – 1916) e quella degli ebrei nella Germania nazista (dal 1939 al 1945).

Oggi la deportazione è ritenuta un crimine contro l’umanità, al pari della tortura, dello sterminio, della riduzione in schiavitù.

E se la deportazione è dunque il trasferimento a fini detentivi e di controllo non si può tecnicamente usare questo termine per descrivere lo spostamento disposto dal ministero dell’Interno poco più di una settimana fa di tutti i migranti – poi la misura è stata limitata – residenti a Riace, in Calabria.

Eppure, di impatto, l’imporre improvvisamente a un gruppo di persone che si suppone il Ministro ritenga diverse da sé, l’abbandono di quella che a tutti gli effetti da tempo è la loro casa suona, a chi scrive, qualcosa di facilmente – e certo superficialmente – classificabile come deportazione. Un gesto che serve a punire chi è andato a risiedere in quel luogo, chi ha ideato quel sistema di accoglienza e anche ad avvisare chi, in quel sistema crede o a cui guarda con interesse, di fare attenzione perché “la musica è cambiata”.