DAILY LA PAROLA

Discontinuità

C’erano una volta le sublimi convergenze parallele. C’erano una volta i due forni e i governi balneari, l’appoggio esterno e il caminetto, il patto della crostata e quello del risotto.  C’era il grande vecchio, che in un botto spiegava tutti i misteri italiani,  c’era  – e c’è ancora- il complotto dei poteri forti, che in pratica assolve la stessa missione.  La politica italiana – che da quaranta anni appare tristemente uguale a se stessa – in compenso è sempre stata prodiga di definizioni ardite,   deliziando il pubblico con  formule astratte e metafore popolari tratte dal presepio dei caratteri nazionali  o dal teatro dei pupi.

Oggi, anno di grazia 2020, si porta bene soprattutto a sinistra il mantra della discontinuità.  Il termine – che l’enciclopedia Treccani definisce lapidariamente «interruzione nel tempo e nello spazio» –  si carica in politica di significati molteplici, di volta in volta minacciosi o liberatori.  Insomma: il governo giallo-rosso è o non è discontinuo rispetto al defunto governo giallo-verde?  Sulla discontinuità, i dirigenti del Pd scommettono un giorno sì e l’altro pure, e se richiesti giurerebbero sulla Bibbia o sui propri figli, come non esitava a fare in tempi più spensierati il Cavalier Berlusconi.

L’altro contraente del governo – mesto  erede di una visione  futurista della politica – propenderebbe invece per una discreta continuità con il recente passato. Da incendiari a pompieri, direbbe la saggezza popolare: cosa c’è infatti di più rassicurante della continuità,  che i vocabolari declinano in “estensione, successione, persistenza, stabilità, costanza, permanenza, durata”?

Talvolta i termini vanno in corto circuito. La discontinuità sembra più un terremoto che una pozione rilassante, in grado di garantire stabilità e durata. Ma nessuno, oggi, nella cittadella del governo (ecco un’altra vieta metafora politica) vuole terremoti o scosse simiche.  Una discontinuità radicale chiedono  invece i barbari alle porte, quella destra sovranista e granguignolesca  che solo sei mesi fa avrebbe scommesso sulla eternità italica a colpi di decreti di polizia, manette agli invasori  e navi bloccate in mezzo ai marosi.

Interrogati sui termini reali della nuova discontinuità, i dirigenti della sinistra al governo parlano di “clima cambiato”, si trasformano cioè da politici a metereologi, mentre gli alleati del movimento indossano ancora il cappotto che portavano  ai tempi del contratto con Salvini. In realtà, come insegnano i modelli scientifici,   per gli umani quello che conta è la temperatura percepita e non la tacca sul termometro. Se Di Maio sente freddo e Franceschini muore di caldo, niente di grave: è semplicemente la discontinuità della continuità, una diversa percezione della temperatura governativa.

Direte, diremo: ma tutto questo cozzar di sciabole terminologiche ha un senso nella realtà? Certamente no: chiedete al passante, chiedete al commensale, chiedete al vostro vicino di casa, chiedete al commesso e allo studente, alla donna delle pulizie e all’operaio, al disoccupato e al percettore del reddito di cittadinanza.   Nulla ci sapranno e ci vorranno  dire sul dibattito continuità-discontinuità, che tanto intriga i politici e i loro entourage. Siamo ancora lì, dunque: l’appassionato accapigliarsi su un termine che nulla significa è l’eterna metafora della politica italiana.

«Ecco la cronaca fedele della decadenza di un impero fatto di poltrone e privilegi, di salotti e di studi televisivi. Sullo sfondo, a far da pubblico, resta la gente comune. Cittadini delusi, truffati, umiliati»: con queste parole Giampaolo Pansa presentava al pubblico il suo volume intitolato Il regime.  Pansa è morto qualche giorno fa, e queste pagine furono scritte nel lontano 1991. È morto Craxi, è morto Cossiga, è morto Andreotti, altri personaggi del vecchio  coro sono oggi arzilli vecchietti, ma a trenta anni di distanza  noi tutti siamo ancora aggrappati alle parole che non descrivono le cose, ai simulacri del vuoto politico, in fondo  paralizzati come allora da quello che in un capitolo del libro l’autore chiama “La grande strizza”.