LA PAROLA

Empatia

La radice greca, pathein (patire, soffrire), ci pone di fronte a una modalità del sentire che si qualifica per il movimento di avvicinamento e di unione con il proprio oggetto. Oggi l’empatia ha un periodo di straordinaria (forse troppa) fortuna, ma non sempre la parola è usata a proposito, anzi il più delle volte ne viene frainteso il pieno significato.

L’empatia permette di mettere al centro della propria vita la relazione con l’altro e con l’intero suo mondo emozionale, volitivo e cognitivo. È elemento essenziale della convivenza umana e prova che la nostra condizione su questa terra è di pluralità: siamo insieme, non isolati, gli altri sono una componente dell’esistenza che sussiste anche quando non si traduce in esperienza reale di relazione.

Sentire empatia non è però una conseguenza automatica del vivere sociale. Presuppone la sottile capacità di saper modulare finemente il rapporto tra corpo, emozioni e mente. Conoscere un altro vuol dire non solo percepire un altro corpo, ma anche un’anima; avvicinarsi a qualcuno che fa parte del mondo esterno e che possiede un’interiorità. Empatia è un immergersi nelle cose che richiede strati di esperienza molteplici non riducibili né alle sole emozioni, né alle sole operazioni dell’intelletto, ma che coinvolgono la partecipazione all’essere nella sua profondità.

L’empatia è stata ed è confusa con la grande famiglia di termini: compassione, solidarietà, simpatia, condivisione, partecipazione emotiva, comunione spirituale, tutte forme di contatto con le emozioni altrui che con l’empatia non sono identificabili né assimilabili. L’empatia è piuttosto la via per accedere all’intera persona dell’altro, è il fondamento di tutti gli atti con cui entriamo in relazione con l’altro, è la condizione della loro possibilità. Empatia riguarda la comprensione del punto di vista “unico” dell’altro. Il suo scopo è mettersi nei panni altrui per riuscire a percepire la realtà della sua prospettiva.

Chi per prima e con grande autorevolezza indagò fino in fondo il tema della empatia fu Edith Stein (nella foto), filosofa fenomenologa, allieva e assistente di Edmund Husserl, ebrea di nascita convertitasi e entrata nel Carmelo come suora di clausura. Venne arrestata dalla Gestapo il 2 agosto 1942 e deportata ad Auschwitz, dove morì nella camera a gas. Nel suo studio Il problema dell’empatia (1917), si chiese con molto coraggio che cosa fosse realmente il fenomeno del rendersi conto di cosa fa, sente, vuole, pensa l’altro. Decisiva fu per lei la lettura dell’autobiografia della grande mistica cristiana Santa Teresa d’Avila. La sua ricerca mirava a chiarire l’essenza dell’atto che sta alla base di tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo all’altro. Implica cercare e trovare ciò che, in ogni essere umano, fonda l’unità di sensibilità, emozioni, conoscenza, volontà. L’empatia, un atto individuale che appartiene alla sfera emotiva e che usiamo quotidianamente nel rapporto con gli altri, rappresenta per la Stein la risorsa capace di rilanciare le potenzialità dell’esistenza umana: configura un nuovo schema della vita della coscienza, non più fondato sul contatto che l’io ha con se stesso, bensì sulla relazione con gli altri e con ciò che è altro da noi. Nell’empatia si gioca un nocciolo dell’esperienza umana che non è frutto di una costruzione dell’intelletto o della volontà; corrisponde alla dimensione del vivere comune.

La parola chiave dell’atto di empatia è “rendersi conto”: osservare, percepire, accorgersi di qualcosa che mi si contrappone come oggetto. L’altro e la sua gioia, il suo dolore sono lì di fronte a me, solo che non mi stanno di fronte come un albero, che posso afferrare con la vista e allo stesso tempo rimane lì, diverso e fuori da me, in quanto cosa. Sto di fronte al dolore o alla gioia dell’altro e indirizzo l’attività della mia coscienza per coglierlo in maniera appropriata. E per far questo, vado presso di lui. Accade allora che non ci sono più io, da una parte, e la gioia o il dolore altrui, dall’altra. Si sta aprendo lo spazio di una nuova esperienza sui generis, che coinvolge sia me che l’altro. Il contenuto del vissuto emotivo che sperimento non mi appartiene; è la gioia, il dolore dell’altro; eppure lo sento, lo vivo interiormente, ma non “come se” fosse la mia gioia, il mio dolore. Sto sperimentando l’allargamento della mia esperienza, rendendola capace di accogliere dentro di me i sentimenti altrui. Faccio esperienza interiore di un’esperienza che non è la mia, vivo un sentimento che non è il mio. C’è familiarità e estraneità, c’è vicinanza e lontananza, c’è distanza e relazione.

Questo è il miracoloso paradosso dell’empatia: due soggetti che non diventano uno, non si confondono in identità, non si immergono l’uno nell’altro. Non vi è fusione, eppure l’esperienza empatica intreccia le loro individualità e attesta la possibilità di accedere al mondo dell’altro, anche nella sua totale autonomia. Inaugura un modo nuovo di stare al mondo: ricco, complesso, misterioso, traboccante di desiderio per un vivere diverso.

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