LA PAROLA

Epiteto

Come sono caduto in basso, signora mia! Ecco cosa direbbe l’epiteto se potesse parlare. La sua origine è nobile, poetica: viene dal greco ἐπίθετος, che significa aggiunto. Come può una parola così compunta come epiteto esser diventata sinonimo di improperio, insulto?  Eppure eravamo partiti in tutto un altro modo, molto più onorevole, tanto che l’epiteto viene utilizzato anche in molte formule religiose, in lingue fra loro molto diverse. Una buona interpretazione dell’accidente di percorso è questa: «[…] comprendiamo l’estensione di significato di questa parola verso l’insulto: è un’estensione ironica, che ci dipinge un momento in cui ad un nome sono apposte delle ingiurie… epiche».

Una volta aggiunto al nome, l’epiteto provvede a definirlo, come fa nei poemi omerici per richiamare subito alla mente gli eroi di cui narra, o gli dèi onnipotenti (e qui c’è già un epiteto, in sostanza). Come dimenticare Atena occhioazzurro? E Achille piè veloce, o Giove altitonante? Diventano un conglomerato, una coppia che va sempre assieme, come i nomi dei pellerossa: Aquila della notte, Cavallo pazzo….

L’epiteto è una tecnica di memorizzazione della poesia epica ed omerica, perché l’aedo recitava i versi a memoria, perciò la qualità saliente dell’eroe espressa con l’epiteto era utile anche a ricordare tutta la sua vicenda in versi, e a non far perdere il filo all’ascoltatore. La poesia orale ha resistito impavida fino al Novecento, quando l’Orlando Furioso o la Divina Commedia erano l’intrattenimento della serata, in cerchio con le seggiole nell’aia delle famiglie contadine, e quando la prodezza di cantare un contrasto in ottava rima era un gran divertimento.

Ancora adesso, nelle campagne toscane, e non solo, alcuni anziani contadini recitano Dante e Ariosto a memoria, come gli antichi Aedi facevano con l’Iliade e l’Odissea.

Per evitare che i poeti usino gli epiteti a sproposito, il letterato Giambattista Bisso, nel suo libro Introduzione alla volgar poesia del 1749, ne insegna il corretto uso: «L’Epiteto, volgarmente chiamato Aggiunto, o Aggettivo, è quando s’adatta ad alcun nome proprio, o appellativo un altro nome, che vaglia a dinotare la natura, e la qualità di quello, come bionde chiome, giovanile errore, ondoso mare, ombra notturna, rapace artiglio. Or questi Epiteti, quando son bene adattati, danno un gran risalto al componimento: e vagliono egualmente presso gli Oratori, e presso i Poeti, non tanto ad accrescer la forza delle parole, alle quali sono apposti; ma a variare ancora, e mutare il comune basso modo di dire, con dargli leggiadra novità: il tutto però sta nel saper con giudizio servirsi di quell’ornamento, perchè il più delle volte la freddezza, e la bassezza nelle composizioni, massimamente de’ Principianti, suol nascere dagli aggiunti male apposti al soggetto. Quindi ho determinato esporre ai più Giovani in tal mestiere di poetare alcuni pochi avvertimenti, che vagliano, se non a svegliare gli Epiteti più confacenti, almeno a scansare i più inutili, e sproporzionati».

Del resto non era più il tempo di Saffo che, per essere sicura che Afrodite la ascoltasse, gli epiteti a lei dedicati li usa tutti assieme: «O immortale Afrodite, dal trono variopinto, figlia di Zeus, tessitrice di inganni, ti supplico …». E non si risparmia nemmeno con Eros: «Ancora una volta mi scuote Eros che scioglie le membra, / dolceamara invincibile fiera».

Anche i poeti moderni usano gli epiteti: ad esempio Montale, poeta caro a Titta Schiraldi, definisce Hitler, in visita ufficiale a Firenze nel 1938, «un messo infernale/ tra un alalà di scherani» (La primavera hitleriana, da La bufera e altro, 1940-1954). Messo infernale, un epiteto così consono al suo portatore! Il poeta l’aveva imparata davvero, la lezione di Bisso.

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