DAILY LA PAROLA

Equazione

Equazione viene dal verbo equare, dal latino aequare, cioè «uguagliare», «pareggiare», «livellare». Ne origina per suffissazione nominale deverbale, ed è un nome d’azione. È l’agire di chi voglia annullare, smussare o comporre differenze, avvicinare. Nel senso di uguagliare ha prevalentemente accezione positiva; infatti aequare deriva da aequo, da cui origina anche equità, contrariamente al sinonimo livellare. Si eguagliano infatti primati o i cittadini nei diritti, ma si livella verso il basso, a meno che non si pareggi un terreno per praticarvi uno sport o per giocare o coltivarlo.

Il vocabolario Treccani ci spiega che la parola significa propriamente uguaglianza, uguagliamento, pareggiamento in frasi di tono elevato per esprimere l’agire di chi ponga o tenti di porre al medesimo livello. Essendo scarsamente utilizzata in questa accezione, non si trovano in rete frasi e citazioni moderne che ne esemplifichino l’uso, per cui per mostrarne una occorre ricorrere all’italiano settecentesco di Antonio Genovesi nelle sue Lezioni di Economia Civile: «Il giudice dee studiarsi di avvicinare il più che si può la definizione della legge civile alla naturale. Questa equazione, o approssimazione, fu detta da’ Greci Epiicia (vedete Aristotile negli Eudemj) e dai Latini Aeqvitas».

Fuori dall’ambito della matematica, si trova online anche un’altra citazione, di Fabio Volo, noto conduttore di programmi radiofonici che ha all’attivo anche numerosi vendutissimi romanzi: «Potresti essere la mia perdita di equilibrio. L’equazione del mio caos». Ma sembra che qui equazione stia per formula nel senso di motivo o spiegazione, quindi con un significato del tutto inedito sebbene presente su un gran numero di copie. A meno che non si tratti di una sorta di rompicapo: l’amato cui è rivolto il pensiero potrebbe rappresentare contemporaneamente sia la perdita di equilibrio, cioè l’abbandonarsi ad un amore travolgente, che il livellamento degli sbalzi del caos emotivo in cui vaga la protagonista per la mancata realizzazione di tale sentimento. Ai posteri l’ardua sentenza.

Il significato più comune della parola è però fuori di dubbio quello legato agli sforzi intellettivi ed ai timori di molti studenti: le equazioni matematiche. Ve ne sono di ogni grado e specie: lineari, trigonometriche, integrali, trascendenti e loro varie combinazioni. Compaiono sui testi e si materializzano nei compiti in classe come una sorta di minaccia plurima, perché in effetti non vengono mai sole, e quando lo sono sovente ne sottintendono un gran numero di cui sono la sintesi, cioè l’espressione, agli occhi di pochi eletti, della bellezza matematica.

Più precisamente l’equazione matematica è una relazione, tra grandezze o funzioni matematiche, espressa attraverso uguaglianze soddisfatte solo per particolari valori assunti dalle variabili, sebbene le approssimazioni siano la regola anche nel regno della matematica certezza, che infatti è tale al netto di assiomi ed errori considerati accettabili rispetto alla realtà osservata che con le equazioni si tenta di descrivere e quindi di prevedere.

Errori, certo, ma non quelli che fanno precipitare i voti, bensì grandezze, le più piccole possibile, che indicano che il sapere si completa con l’ignoranza, anche se spesso sfumata in dogmi e convinzioni: lo stesso Albert Einstein, che di equazioni se ne intendeva, credeva così fermamente, ma salvo poi ricredersi definendolo il più grossolano errore della sua carriera, che l’universo fosse fisso e che tali fossero le distanze tra le galassie, che introdusse in quelle della teoria della relatività generale che gli indicavano il contrario, la costante cosmologica per rimettere ogni cosa al suo posto.

Verrebbe da dire hic sunt leones, o dracones, locuzione che nell’antica cartografia indicava i territori inesplorabili, invece del più accreditato inesplorati, ove si voglia accogliere il significato datole da Jorge da Burgos, personaggio de Il nome della rosa: «Ci sono dei confini al di là dei quali non è permesso andare. Dio ha voluto che su certe carte fosse scritto: hic sunt leones». Altrimenti poi magari si scopre che “l’anziano” gioca a dadi, soluzione che fu rifiutata dallo stesso Einstein, il quale, seppure padrone di un’indiscutibile e geniale immaginazione, preferiva credere ad una realtà oggettiva, seppur relativa, con cause ed effetti certi, mentre altri scienziati sempre più numerosi già la abbandonavano: «Dobbiamo ricordarci che quello che osserviamo non è la natura in sé ma la natura esposta al nostro metodo di interrogazione», diceva Heisenberg, che con Bohr costruiva, già nei primi anni del secolo scorso, le probabilistiche fondamenta delle equazioni della teoria della Meccanica Quantistica. Non tutto è percetto? L’osservatore influenza i fenomeni per il solo fatto di osservare, ne è parte integrante e, solo a certi livelli percettivi, distinto, o diverso. Citando Carlo Rovelli, fisico e divulgatore, la realtà è interazione.

Pare dì addentrarsi in un mondo in cui si è già. Come se interagire sia perdersi che partecipare e comprendere proceda verso l’uguagliamento di differenze.

L’equazione, intesa come livellamento, delle differenze è invece il suo esatto contrario, è l’azione sempre repressiva di omologare. È il fertilizzante per il dominio del non-pensiero e dell’ignoranza intesa non quale errore consapevole, ma scambiata per verità.

Sono di questo tipo le equazioni di cui occorra davvero avere un sacro timore.