DAILY LA PAROLA

Èskimo

Il ritorno dell'eskimo, divisa della generazione del Sessantotto
Foto di Cristiana Frattasio

Ancora oggi molti giovani indossano un capo di abbigliamento che è stato una sorta di divisa della generazione protagonista di proteste e manifestazioni fra la fine degli anni Sessanta – intorno al mitico ’68 – e la fine del decennio successivo: vederli ancora indosso ai ragazzi produce una strana emozione in chi visse quel decennio di passione e speranze.

Francesco Guccini lo omaggiò in questa strofa della sua canzone che da esso ha preso il titolo: «Portavo allora un eskimo innocente / dettato solo dalla povertà».

In effetti costava poco, meno dei cappotti o dei primi piumini, ed era abbastanza pratico. Riparava dal freddo, dal vento e abbastanza anche dalla pioggia e il gore tex all’epoca era ancora da inventare.

Arrivava all’incirca alle ginocchia, poco sopra, aveva il cappuccio, due tasche abbastanza capienti e talvolta due tasche più alte per riscaldare le mani. Spesso era imbottito con un vello di montone o sintetico che si poteva staccare quando la stagione si faceva meno rigida.

Spesso veniva scelto perché muovendosi in moto o su una Lambretta quei requisiti di protezione erano indispensabili e c’era poco di meglio, i Barbour o le Belstaff per chi poteva permetterseli.

Per lo più di color grigio verde come le divise dei soldati – magari come quelli americani che dopo essere stati nel Vietnam si resero conto dell’orrore che avevano prodotto – deriva ovviamente il suo nome dai popoli che abitano le zone artiche del pianeta. Pare che originariamente la parola indicasse semplicemente un tessuto pesante di lane cardate, rese morbide e vellutate dalla rifinizione.

Divenne effettivamente più che una moda vera e propria, una sorta di marchio di appartenenza, un segno di comunità. Indossarlo in alcuni luoghi delle principali città, come piazza San Babila a Milano o piazza Indipendenza a Firenze, luoghi di ritrovo dei fascisti, era assai pericoloso.

 

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