LA PAROLA

Fare

Di fare si fa un uso smodato che impoverisce la lingua e, se è vero che le parole fanno il modo del mondo, facendo di fare, e di poche altre, un uso pervasivo, è presto detto che brutta fine si farà.

Perché invece di fare si può dire ben altro e certe costruzioni  poco eleganti posso essere sostituite da sinonimi o parole più precise, attinenti ed espressive, se non direttamente emotive. Anche se si dimostrerà il contrario.

Ovviamente non è tutta colpa di fare, anche dire patisce un uso sovrabbondante, o cosa, da cui sorge cosare, per citare alcuni esempi.

Fortunatamente, oltre a dire e a fare c’è, intorno, un mare di possibilità.

In questi ultimi giorni mi sono imbattuto in un uso furbissimo del verbo fare: fare un reato.

Sappiamo bene che un reato si compie, o si commette. Se si commette un delitto il reato è compiuto.

Il colpevole non fa il reato. Al limite lo fa la legge, che invece lo descrive e lo delimita, lo istituisce e lo individua, nel suo ambito. Il reato esiste prima della sua codifica, è sotto gli occhi di tutti. Soprattutto di coloro che quel fare o non fare disdegnano, riprovano; che inorridiscono, non possono accettare.

Perché quindi dire che il reato “è fatto”? Anzi, che il reato è fatto per gli altri?

Chiariamo. Usiamo precisamente le recenti parole del Guardasigilli Bonafede: «Chiariamo. Qui non si tratta di immunità, perché qui c’è uno che praticamente ha fatto un reato non per sé ma per gli altri».

Se avesse detto commesso, il reato sarebbe stato compiuto, la frase avrebbe risuonato immediatamente come un’esplicita condanna, o una presa di posizione ufficiale, perché proveniente da un ministro, e della Giustizia: quasi un’aggravante. Il vice premier direttamente coinvolto nella vicenda sarebbe stato dichiarato colpevole seduta stante da un alleato di governo. Un’altra tegola, sugli alleati.

Quando invece si fa qualcosa non per sé ma per gli altri, si fa per generosità, bontà d’animo, amore per il prossimo (elettorato). Vuoi mettere? Tutt’altro paesaggio sotto la luce celeste (un celeste caduto in disgrazia, proprio in questi giorni) del sacrificio e dell’altruismo. Fatto santo, e subito. Di più: ricorda colui che si è fatto carico dei peccati altrui. Siamo nelle altissime sfere. Se ci guardiamo dentro possiamo già vedere un uomo solo al comando, a stretto giro e con un inedito, tra i tanti già indossati, costume di scena. La croce dei reati altrui in effetti mancava nello stato di diritto.

Qualcuno farà ammenda? Chissà.

Intanto mi pare palpabile un sentimento di diffusa gratitudine per l’emotività, di cui si accennava, generata dal fare per gli altri.

Facciamoci il segno della croce. Anzi, riformuliamo con le parole giuste ricordando sempre, in caso di dubbio, di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto al sé.

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