LA PAROLA

Ferrubbòttu

Nell’attesa dell’ormai famoso “ponte sullo stretto di Messina”, che i politici, fortunatamente non tutti, ad ogni elezione promettono di realizzare, i siciliani per andare nel “cuntinènti”, fin dal 1899, hanno attraversato i circa tre chilometri di mare che lo separa, col leggendario Ferrubbòttu. Questa parola, nel pronunciarla, accomuna gli isolani, quasi una rivalsa nello storpiare dall’inglese “Ferry-boat”, la nave-traghetto.

Il termine, per la verità in disuso, è stato sostituito con trachèttu (traghetto). Salirci a bordo da passeggeri è un’esperienza da fare, per i più piccoli poi, resterà davvero un indimenticabile ricordo. Le curiosità sono tante, specie quando si assiste alle complesse manovre per l’imbarco del treno e delle auto, alla chiusura del boccaporto, magari gustando il tipico “arancino al ragù” nell’affollato viavai sulla plancia di comando.

L’accensione dei motori e il suono cupo della sirena segnalano la partenza, il «ferrubbòttu, ccu putènti trimmulìzzi (tremori)» oscillando, prende il largo. Nel breve tragitto, dalla ciminiera un groviglio intenso di fumi offusca il volo radente dei gabbiani; un turbinio di eliche increspa l’azzurro del mare, lasciando tra le onde lunghe scie di schiume argentate, infrante in un selfie, al riverbero rossastro del tramonto.

«Uhè ferrubbòttu – esclamò scherzando Roberto rientrato dalle ferie – bellissima la vostra terra! Ma che ci state a fare al Nord!». Solo al Nord?, pensai. Lui, non sapeva del pianto delle madri che aveva inondato di lacrime il secolo scorso.

Emozionano ancora i documentari girati in bianco e nero dall’Istituto Luce, quando il “ferrubbòttu” stracarico di emigranti, mollava gli ormeggi. In delirio, sbracciandosi, correvano ansiosi da poppa a prua, per ricambiare, con gli occhi smarriti tra sventolii di fazzoletti, l’ultimo saluto ai parenti rimasti sulla banchina. La Sicilia, col cubitale Vos benedicimus della Madonnina del porto in dissolvenza, sbiadiva tra le pupille. Quella Statua inerme, corrosa dalle brezze, ha visto partire giorno e notte migliaia di persone in cerca di lavoro. Molte non sono mai più tornate. Con altre navi-traghetto hanno solcato i mari del mondo, salpando da Napoli o da Genova, lenivano la pena dell’espatrio col cuore aperto alla speranza.

Gioiosi, all’arrivo, spedivano la cartolina del bastimento dal nome blasonato: Conte di Savoia. «Cara matri ti pensu, sto bene, viaggiai ccu ‘stu ferrubbòttu rannùni (grandissimo). Tanti baci. Tuo figlio».

«… e quannu passa chistu ferry-boat/ ca luntano ce porta/ e nun ce fa penzà’…» con accorata malinconia cantava Pino Daniele, pace all’anima sua, negli anni Ottanta, ma già da prima i “ferrubbòtti”, trasformati dalle ricche società armatrici in sfarzose navi da crociera, avevano lasciato il posto agli “apparècchi” (aerei) sulle linee internazionali e ancora oggi, senza prospettive di lavoro, centinaia di giovani, spesso accusati da deficienti ministri come “choosy”, bamboccioni, e ora “millennials” sfigati, sorvolano lo stretto con atavica rassegnazione e lo stesso destino.

Ma «al peggio non c’è mai fine». Che dire, dei tragici videoclip sulle “carrette del mare”? Dei naufraghi storditi su sgonfi gommoni alla deriva? Ormai da diversi anni le Ong umanitarie, malgrado la recente polemica politica, nei porti siciliani, e non solo, dai loro «trachètti», sbarcano migliaia di disperati avvolti in teli fluorescenti. I tanti morti inghiottiti dal mare turbano la mente. Nessuno, negli abissi del Mediterraneo, erigerà monumenti agli “ignoti”. Alle loro madri non giungeranno cartoline. Solo Gesù, riportano i Vangeli, camminava indenne sull’acqua e il taumaturgo San Francesco da Paola nel 1464 stendeva il miracoloso mantello per varcare lo stretto tra Scilla e Cariddi. Rimane soltanto il mitico Caronte dantesco a traghettare e punire «…l’anime prave!» per l’eterna e finale giustizia.

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