LA PAROLA

Globalizzazione

Strano destino hanno le parole! Per quanto graficamente e sonoramente brutta come molte delle parole che terminano in quel modo (mercificazione, movimentazione, rottamazione), e per quanto adoperata prevalentemente nella sua accezione peggiore, globalizzazione avrebbe potuto, fin da quando entrò in uso a partire dagli anni Novanta, regalarci quello che, se non faremo in tempi ragionevoli, ci porterà con molta probabilità ad un naufragio di dimensioni spaventose, forse non la “fine del mondo” mille volte annunciata e mille e una volta delusa, ma ad uno snaturamento radicale e terrifico.

Concisamente la Treccani dice che sta ad «indicare un insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree del mondo».

Che ci sarebbe di più bello di sentirsi individui con pari diritti e pari doveri in ogni angolo del mondo? Orgogliosi e rispettosi delle proprie differenze senza che queste sminuiscano la nostra comune appartenenza al genere umano e la condivisione del pianeta Terra, ambiente comune a tutti e di tutti?

Sembrava insomma, per un attimo, che ereditasse quell’aspirazione, in un mondo senza più frontiere, all’uguaglianza, alla solidarietà, al rispetto della dignità contenuta nelle strofe de L’Internazionale. Che prevalessero il desiderio e la consapevolezza a considerare il “globo terracqueo” come una residenza condivisa, da curare e coltivare con la stessa cura con cui si cura e si coltiva la propria dimora, non lasciando che il bagno faccia schifo o ci siano le pulci sul pavimento o il frigo sia vuoto e niente in casa con cui scaldarsi d’inverno.

La stessa «unificazione dei mercati a livello mondiale» avrebbe potuto consentire di far apprezzare per la loro particolarità in ogni angolo della Terra la fontina valdostana o il parmigiano reggiano, così come il chili messicano o i falafel che uniscono arabi ed israeliani, come prodotti tipici di quei posti, non come sapori indefiniti riproducibili in una catena di montaggio.

Invece sono prevalsi «modelli di consumo e di produzione più uniformi e convergenti», che hanno spinto verso «una progressiva e “irreversibile” (speriamo di no! Ndr) omogeneità nei bisogni e a una conseguente scomparsa delle tradizionali differenze tra i gusti dei consumatori a livello nazionale o regionale» e al semplice sfruttamento da parte delle imprese di «economie di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei prodotti, specie dei beni di consumo standardizzati», all’adozione di «strategie uniformi» di vendita di un bene in tutto il mondo, senza «assecondare la varietà delle condizioni presenti nei paesi in cui opera».

Anche il significato di “liberalizzazione” con cui il termine globalizzazione viene spesso usato come sinonimo, avrebbe potuto riferirsi alla liberazione degli individui che non hanno di che mangiare, di quelli che sono costretti a sottostare perché c’è chi li sottomette, alla possibilità per tutti di muoversi, conoscere, godere di quanto la scienza e la tecnica hanno inventato, anziché all’abbattimento di dogane con cui inculcare lo sfrenato inseguimento di “status symbol” e di mode che rendono tutti uguali solo nel come appaiono anziché nei diritti che hanno o nelle opportunità che sono loro concesse.

Si sarebbero potuti esportare rispetto, reciproca conoscenza, idee apprezzabili come migliori di altre, anziché merci identiche che impediscono di identificare, di avere un’identità ed appiattiscono solo producendo replicanti di modelli prefigurati.

Ha finito per privilegiare smisuratamente un numero sempre minore di individui a discapito di un numero sempre maggiore di altri individui, gratificati solo dalla possibilità di permettersi di tanto in tanto di entrare in un mega centro commerciale identico a Singapore come a Ibiza o a Caracas, uscendo con del nylon che costa come il cachemire solo perché ha un marchietto in un angolo.

Merita però riappropriarsi di tale parola, restituirle il significato che racchiude ed ostinatamente suggerire che di questo pianeta dovranno godere anche quanti verranno al mondo poi, essendo esso loro non meno di quanto è di chi ora lo popola: a Sud come a Nord, ad Est come a Ovest, qui, là, su e giù. Ovunque questo globo conservi la sua forma elissoide.

Tags