Il termine greenwashing è un neologismo composto dalle parole inglesi green (verde, colore simbolo dell’ecologismo) e washing (lavare) che richiama il verbo to whitewash (usato con il significato di imbiancare, dare la calce, quindi, per estensione, coprire, nascondere). In italiano potrebbe essere reso con l’espressione “darsi una patina di credibilità ambientale”, che traduce la tendenza a proclamare presunti comportamenti sostenibili, da parte di molte aziende, per ottenere un maggior profitto, attirando l’attenzione dei consumatori attenti alla salute del pianeta.
Questo termine è stato coniato nel 1990, quando alcune tra le più inquinanti imprese americane hanno intrapreso la strada dell’eco-friendly. In realtà la sua introduzione viene fatta risalire all’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che lo impiegò alcuni anni prima per stigmatizzare la pratica delle catene alberghiere di fare leva sull’impatto ambientale del lavaggio della biancheria. Era un modo per invitare gli utenti a ridurre il consumo di asciugamani, ma per motivazioni prevalentemente di tipo economico.
Il greenwashing, pertanto, è ritenuto una forma di pubblicità ingannevole che le aziende utilizzano con il solo scopo di trarre un beneficio economico, senza fare realmente nulla di concreto nei confronti della tutela ambientale. Le pratiche sono molto semplici: uso di marchi con il suffisso eco-, uso del verde come colore dominante, definire un prodotto eco-friendly, ecc.
La giornalista Valentina Furlanetto, nel suo L’industria della carità, lo ha definito «una forma di appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente».
Dalla composizione di greenwashing derivano neologismi che indicano una condotta aziendale simile, ma in altri campi: il pinkwashing che punta ad abbassare l’attenzione su eventuali difetti del prodotto, contrassegnandolo con il fiocchetto rosa (simbolo della lotta al tumore al seno) o proponendo articoli che sensibilizzino i consumatori sul tema dell’emancipazione femminile; il genderwashing che propone prodotti con riferimenti all’abbattimento delle differenze di genere; il rainbow washing che invoglia il consumo di merci con attività promozionali che fanno riferimento al mondo gay.