LA PAROLA

Hashtag

«Sii breve che un discorso lungo non può mai dar piacere», faceva dire Cervantes a Don Chisciotte. Di sicuro chi usa gli hashtag, ha preso sul serio il suggerimento del celebre scrittore spagnolo.

La parola, composta da hash (cancelletto, nel linguaggio informatico) e tag (etichetta), è uno dei neologismi in lingua inglese più diffuso, indispensabile e insostituibile per chi ha fatto dei social il proprio credo. Questo “aggregatore tematico”, sotto la cui voce si trovano messaggi, immagini, filmati (e quant’altro si può mettere in rete), legati da uno specifico argomento, è composto dal simbolo “#” seguito da una o più parole e, in pochi caratteri, consente a chi lo ha creato e a chi ne usufruisce di partecipare a una sorta di community a tema, sugli argomenti più disparati.

Come ogni fenomeno che si rispetti, ha un padre, Chris Messina, un avvocato di San Francisco; una data e un luogo di nascita, 23 agosto 2007, in California; e ha anche un padrino, un certo Nate Ritter, che nell’ottobre del 2007, per la prima volta utilizzò il suggerimento di Messina per scrivere su Twitter a proposito degli incendi che stavano devastando San Diego.

La frase che l’avvocato aveva “cinguettato” – «How do you feel about using # (pound) for groups. As in #barcamp [msg]?» – venne ben colta da Ritter che scrisse così il primo hashtag: #sandiegofire.

L’uso di parole precedute dal cancelletto, infatti, è nato proprio in funzione di Twitter, per comunicare e aggregare più concetti possibile, con meno caratteri. Basta cliccare sull’hashtag per vedere la cronologia di tutti i messaggi che lo contengono, accedere alle notizie, partecipare alle discussioni. Oggi spopola anche l’elenco dei trending topics, con il quale Twitter consente di visualizzare gli hashtag più usati e più popolari.

Pian piano la moda del cancelletto ha conquistato gli altri social, con più o meno successo, e ormai è utilizzata come “aggregatore” di interesse, da giovani, meno giovani, media, aziende, politici, personaggi dello spettacolo, che usano quotidianamente il noto simbolo per i propri slogan (si parla di 125 milioni di volte al giorno su Twitter).

Una moda, che al pari dei selfie e di altre tendenze del popolo dei social, è irrinunciabile. Usare hashtag intelligenti, creati ad arte, aumenta le visualizzazioni e i like, fa audience e, soprattutto fa opinione. Ci sono corsi ad hoc per imparare a inventare hashtag di successo, anche se più spesso nascono per caso, dall’intuizione del momento, e diventano un fenomeno della rete a prescindere dalla volontà del loro creatore.

Gli ultimi anni sono densi di epic hasthag – nel bene e nel male – che sono diventati virali e si sono trasformati in modi di dire, finendo anche sulle magliette, piuttosto che sulle tazze del caffè. Ci sono quelli seri, come #PrayForBerlin, #JeSuisCharlie, #MafiaCapitale. E anche quelli meno seri, come il già citato #Ciaone, fino al celebre #Enricostaisereno, che ha ribaltato il significato della frase stessa e oggi si usa senza cancelletto per auspicare esattamente il contrario.

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