CRITICA LIBRI

I paradossali due volti della dipendenza

Quando decido di leggere un libro mi faccio sempre trasportare dalle emozioni che il titolo suscita dentro di me. Immagino l’autore alla ricerca delle parole adatte, probabilmente alla fine di quanto ha scritto, il momento in cui la scelta cade su qualcosa di significativo per lui, di evocativo per i suoi lettori.

Non posso conoscere il processo mentale che ha portato Allaman Allamani a scegliere Dipendere per intitolare le sue riflessioni, ma la sensazione che ho avuto alla lettura di questa parola è stata come di qualcosa che avesse a che fare con un sentimento di sospensione, l’invito ad un ingresso discreto e rispettoso nell’anticamera di uno spazio e di un tempo che ne cogliesse la dimensione essenziale.

Ho parlato di sospensione perché i miei occhi, dopo aver seguito le lettere della parola che campeggia sulla copertina del libro, sono andati alla ricerca di un sottotitolo sul quale poter atterrare al sicuro di una spiegazione, di una nota che mi rendesse tutto più familiare, che rientrasse nell’ambito delle mie conoscenze scientifiche…

Ho capito un attimo dopo che Allamani mi chiedeva di entrare senza camice, di dimenticare il badge della mia identità di “professionista” della salute mentale e di esplorare insieme a lui un luogo, quello della dipendenza, che porta con sé le insidie, così preziose alla crescita personale e spirituale, dell’incertezza e della instabilità.

«[…] voglio dire la Capacità Negativa, ovvero quando l’uomo è capace di convivere tra incertezze, dubbi, misteri senza nutrire un’irritabile aspirazione ai fatti e alla ragione».

Questo è un passo di una lettera, indirizzata ai fratelli, del poeta John Keats nella quale egli cercava di definire ciò che avvicinasse l’essere umano alla verità delle cose.

Le storie raccolte nel libro di Allamani sembrano proprio incarnare questo concetto così caro anche alla psicoanalisi, che fu ripreso da Bion per indicare lo stato mentale dell’analista a lavoro, e di cui si cerca di trasmettere l’esperienza nei training formativi.

Durante il Training di formazione in psicoterapia infantile presso la Tavistock Clinic di Londra si richiede agli allievi un biennio di Osservazione del neonato. Lo studente si reca a casa della famiglia del neonato e lo “guarda” per un’ora, settimana dopo settimana per 2 anni, senza fare nient’altro che ascoltare le emozioni che questa esperienza suscita dentro di sé. Si impara a non-fare, si fa esercizio di non-capire. Si è così testimoni diretti di un legame che nasce; ci si trova ad osservare con gli occhi della mente, la “culla” della dipendenza. Come si potrebbe altrimenti comprendere profondamente questa dimensione e rintracciare così dentro di noi le coordinate di qualcosa che in modo fisiologico abbiamo dovuto in qualche modo “archiviare” per non rimanerne intrappolati. Perché la dipendenza, se negata, può paradossalmente privarci della libertà.

È sull’”effetto paradosso” del principio attivo della dipendenza che si concentra in modo molto autentico la riflessione di Allamani. La dipendenza come “malattia”, ma al tempo stesso come preziosa alleata della crescita interiore; una prospettiva ambivalente all’insegna di ogni esperienza di verità, lontana da una visione mortificante della realtà che la vorrebbe scissa in buona e cattiva.

I protagonisti che raccontano in modo così autentico i loro vissuti, accettano con umiltà e onestà di non conoscere il motivo che li ha spinti a fare scelte diverse da altri, ma ci danno la possibilità di accedere in parte al loro dolore. La cosa più difficile da accettare per il lettore è l’aspetto così concreto della ineluttabilità del loro riconoscere la realtà di una dipendenza; più volte ciascuno sottolinea che la propria dimensione spazio temporale si conta in ore.

Ho provato diverse emozioni, anche quella di un dolore rabbioso nell’ascoltare il senso del limite che queste persone sanno così francamente riconoscere. Ciò che però mi è arrivato in modo molto potente è il senso della loro capacità di lasciarsi individuare in una dimensione di creaturalitá, intesa come riconoscimento di appartenenza a qualcosa che va oltre la propria umana capacità generativa e che attinge a quella porzione inconoscibile di verità, e spesso così difficile da accettare, della spiritualità.

È un argomento ostico che Allamani affronta con molta semplicità, non ricorrendo a riferimenti teorici per sostenere un pensiero, perché a me sembra che sia proprio questo il senso del libro che ha scritto, non c’è alcuna ipotesi da validare, non si vuole illustrare un metodo di cura, non è di questo tipo di “dipendenza”, un bisogno narcisistico di riconoscimento, che si incontra nel testo.

É la storia di un incontro non così casuale, come non lo è stato per me la lettura del libro, in un luogo e in uno spazio – fuori e dentro di noi – con una umanità svelata.

Allaman Allamani, Dipendere, La Parola per Strada Editrice, 2016, pp. 175.

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