LA PAROLA

Iettafòcu

Iettafòcu (fiammifero), da ietta e fòcu (getta e fuoco). Può sembrare stravagante la traduzione in fiammifero, ma così non è, come evidenzia il vocabolario Treccani: «fiammìfero, sostantivo maschile, dal latino flammĭfer – ĕri “che porta, dà, o produce fiamma”, composto di flamma, fiamma, e –fer,  -fero…».

Nella sua evoluzione l’uomo, prima di trovarsi tra le dita un iettafòcu sicuro ed efficiente, ha sofferto le pene dell’inferno, che in quanto a fiamme non scherza. Nei secoli recenti, gli studiosi di varie nazionalità, in preminenza chimici, hanno trovato formule nuove per capocchie colorate di varie dimensioni e formati, sia sui classici con lo stelo di legno che sui moderni cerini. Occhio con quest’ultimi a non scottarsi! A volte nella vita, senza volerlo capita di «restare con il cerino in mano». Sono state modificate anche le scatole per il supporto e l’innesco, sulle quali accattivanti immagini grafiche in miniatura coprono gli spazi per la personalizzazione a fini pubblicitari. Malgrado l’arrivo dell’accendino alimentato a GPL, ‘u iettafòcu resiste al progresso. Un discorso a parte meriterebbero i collezionisti, migliaia gli appassionati nel mondo, che possiedono rari esemplari delle varie marche.

Nelle giornate dall’aria umida e nebbiosa, quando dal mare ‘cchianàva ‘a lupa (saliva la lupa di mare) e ristagnava fitta a soffocare le case, le nonne, in difficoltà ad accendere i fornelli esclamavano:«’sti iettafòcu su pigghiàti ‘i rèndu, no spàrunu e no si ‘ddùmmunu, a Liggèra ni futtìu!» («questi fiammiferi sono presi dall’umido, non sparano e non si accendono, la Liggèra ci ha fregato!»). Del tipo: «piove, governo ladro!» la colpa veniva data alla tabaccaia se, strofinandoli più volte, non appariva la fiammella.

Erano sempre gli anziani, a lanciare a voce alta in estate, terrificanti anatemi contro i piromani, mentre le fiamme divoravano i boschi circostanti il paese: «oh chi mi si mànciunu i cani, Diu l’àva mmalidìri! Chissi sunu mali cristiani sarbàggi! Siddu i ‘ncàgghiunu ci àna a tagghiàri i mani e brucialli vivi!» («oh che se li mangino i cani, Dio li deve maledire! Codesti sono cattivi cristiani selvaggi! Se li prendono gli devono tagliare le mani e bruciarli vivi!»).

Applausi a non finire, invece, per Cammèlu ‘u ciabbattìnu (Carmelo il calzolaio), ad avanza tempo impeccabile masculàru (pirotecnico), quando nelle feste paesane, al momento degli spari, per non rischiare che il vento spegnesse ‘u iettafòcu, si accendeva ‘u sucàrru (il sigaro) e con quello, disinvolto, innescava le micce ai mortaretti. Con sibili continui a fendere il buio, tra uno scoppio e l’altro, fantasmagorici schizzi colorati illuminavano la notte, agli occhi estasiati dei bambini.

Anche l’Etna, dai suoi crateri, saltuariamente offre spettacoli piroclastici che impetuosi assalgono il firmamento con colonne di fumi aggrovigliate. La fiamma dell’attività esplosiva, definita stromboliana, alta centinaia e a volte migliaia di metri è visibile da notevoli distanze; sballottata in ogni direzione da tutta la “rosa dei venti”, senza spegnersi, sfida la forza del ciclone.

Tra i valligiani l’eco sordo dei boati è un ancestrale tam-tam: «a muntagna iettafòcu!» («L’Etna getta-fuoco!»), l’allarme sprona curiosità, incute timore e scuote, in molti di loro, atavici sentimenti di fede nell’invocare, all’istante, la grazia del Santo protettore, affinché nel concistoro celeste interceda col Padre Eterno, per spegnere le fiamme e fermare il fiume incandescente di lava. Il fenomeno dell’eruzione attrae vulcanologi e scienziati del pianeta che da anni studiano l’Etna. I dati dei monitoraggi fin’ora acquisiti nelle varie specializzazioni non svelano il mistero della formula d’innesco.

Tra le molteplici teorie, sono sicuro, non c’è…‘u iettafòcu. Penso che miliardi d’anni fa, Mr. Big Bang orgogliosamente l’abbia brevettato e «tra il serio e il faceto» depositato, alla faccia di tutti, nello scrigno centrale del nucleo della Terra.

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