CRITICA INTERVISTE MOSTRE

Il canarino nella miniera di carbone

Il fotografo James Whitlow Delano racconta il progetto EverydayClimateChange, la mostra che raccoglie il lavoro di trenta fotografi sparsi per il mondo, per documentare i cambiamenti climatici, protagonista del festival ImagOrbetello. Dal 5 luglio, al 18 agosto all’ex Polveriera Guzman
Storm on Tokyo ©James Whitlow Delano

Un cielo arancione incombe su una fattoria. Sembrano gli effetti speciali di un film di fantascienza, ma sono gli effetti, concreti, del gas liberato dalle perforazioni del suolo, che trasforma la notte in un incubo psichedelico. Città sommerse dai nubifragi, terre desertificate dalla siccità, pescatori ai quali l’erosione costiera ha mangiato l’ultimo angolo di sabbia sul quale sedersi, una bambina alla deriva su un frammento di ghiaccio mentre osserva il disfacimento dell’Oceano Artico dovuto al Global Warming. Immagini tragiche, surreali, che compongono il drammatico giro del mondo proposto da EverydayClimateChange, la mostra itinerante, curata da Photo Op in collaborazione con il fotografo americano James Whitlow Delano, che dal 5 luglio al 18 agosto sarà visitabile all’ex polveriera Guzman di Orbetello (Grosseto), in occasione del festival internazionale di fotografia ImagOrbetello.

Statunitense, emigrato in Giappone da oltre vent’anni, Delano si è occupato di diritti umani, ambiente e cultura, ha vinto premi ovunque, le sue fotografie sono state esposte in gallerie e musei in tutto il mondo e sono nelle collezioni permanenti del Museo di fotografia contemporanea di Milano e del Museo di belle arti di Houston. Nel 2015 ha fondato il feed Instagram #EverydayClimateChange (#ECC), diventato poi una mostra itinerante che raccoglie i contributi di trenta fotografi, ognuno dei quali, dal proprio angolo del Pianeta, ha offerto una testimonianza del riscaldamento globale in atto. Un nemico invisibile come i gas che lo provocano, ma terribilmente concreto nelle conseguenze che produce. E se è vero che «la fotografia aiuta le persone a vedere», come diceva Berenice Abbott, ecco che la missione di EverydayClimateChange è proprio questa: aiutare le persone a vedere cosa sta accadendo.

Un racconto per immagini, composto da storie distanti ma attraversate tutte da questo senso di emergenza. Perché ha scelto di coinvolgere trenta fotografi?
Non volevo un progetto che riguardasse solo il mondo occidentale. Volevo che i fotografi documentassero la crisi climatica da dove vivono, per mostrare che il clima non sta cambiando semplicemente “là” ma che sta cambiando “qui” e “ora”. È importante che i fotografi che partecipano a ECC, come Ed Kashi, Vlad Sokhin, Nina Berman, Matilde Gattoni ed Elisabetta Zavoli, tra gli altri, documentino gli ambienti in cui abitano, i luoghi che hanno a cuore, dove hanno familiarità con le comunità locali. Lo rende un lavoro su “noi” e non “loro”. Siamo tutti complici in questo dramma umano e ambientale.

Quanto è difficile ricercare il senso estetico di una composizione fotografica nel momento in cui si documenta un disastro?
Un reportage fotografico come questo si sviluppa nei contrasti visivi. La gente deve riuscire a percepire la crisi climatica dalle immagini che sta guardando, ma non solo attraverso i paesaggi. Anche le storie delle persone possono coinvolgere gli spettatori e farli entrare in contatto con chi sopporta il peso della crisi climatica.

Come cittadini del mondo, dovremmo chiedere di più ai nostri governi, oppure dovremmo iniziare a cambiare noi stessi le nostre piccole abitudini quotidiane?
Dobbiamo chiedere finanziamenti per sviluppare energie rinnovabili. Stiamo già vedendo, grazie alla domanda dei consumatori e ai progressi tecnologici, le energie rinnovabili diventare più competitive rispetto a quelle che sfruttano il petrolio e producono gas serra. Ma dobbiamo pretendere un cambiamento significativo. Vivo in una società post moderna, in Giappone. La qualità della vita è buona e l’incidenza del carbone è la metà di quella del Nord America e dell’Australasia. L’Europa va meglio, ma tutti abbiamo bisogno di migliorare l’efficienza dei nostri consumi perché nelle nostre abitudini ci sono ancora troppi sprechi. Ad esempio, in Giappone riscaldiamo o raffreddiamo solo la stanza che occupiamo. La gente pensa che cose come i sedili del water riscaldati siano stravaganti, ma quello che non viene detto è che, in inverno, questo consente di non riscaldare la stanza da bagno. Per cui, il sedile del water riscaldato è in realtà una scelta “verde”. Inoltre, i fattorini parcheggiano i loro camion ai margini del mio quartiere e usano un carrello a pedali per consegnare i pacchi. E siamo nella iper-moderna Tokyo.

Avverti un cambiamento nelle nuove generazioni? È un caso che sia diventata un simbolo di questi temi una ragazza di 16 anni come Greta Thunberg?
Credo che i più giovani abbiano già abbracciato la necessità di consumare meno energia. Sarà il loro mondo, quello dei prossimi decenni, per cui spetta a loro decidere come lo vogliono. Il movimento ambientalista è iniziato negli anni Sessanta, ma adesso si è sviluppato, imparando dai fallimenti e costruendo sui successi. Il problema è che il movimento populista globale considera il movimento ambientalista come il suo nemico. Il presidente Trump sta danneggiando i progetti per l’ambiente portando avanti i suoi scopi in modo disinvolto e altri governi di destra ci vedono la loro possibilità di fare altrettanto. Quindi, siamo in una battaglia cruciale per il pianeta, e il danno potrebbe non essere recuperabile, perché come avvertono gli scienziati il clima è a un punto critico e se non prendiamo misure immediate rischiamo di perdere il controllo sul surriscaldamento. Temo che le nuove generazioni non riescano a cogliere la giusta prospettiva per affrontare questi argomenti, ed è per questo motivo che, essendo più vecchio, attraverso EverydayClimateChange posso fare come il canarino nella miniera di carbone.

Arctic Ocean, 2015
©Esther Horvath

Eppure, è ancora diffuso un forte negazionismo. C’è chi arriva a sostenere che il riscaldamento globale sia una fake news dietro la quale si nasconderebbe una sorta di nuovo socialismo, che l’amore per la terra sia solo una finzione dietro la quale si nasconde l’odio per le libertà individuali. C’è un disegno dietro la diffusione di queste convinzioni oppure è solo un po’ di folklore residuale come il terrapiattismo?
Queste forze sono ben finanziate, spesso dall’industria petrolifera. Per cui, contro i negazionisti estremi del cambiamento climatico c’è poco da fare. Il nostro obiettivo sono semmai quelle persone che, per mancanza di informazioni, non hanno riflettuto a fondo sulla crisi che ci sta di fronte. Può essere un’alluvione, un incendio violento o una tempesta massiccia, qualcosa di mai visto prima, a svegliare le coscienze. Gli abitanti della California e del Midwest americano, afflitti da una prolungata siccità e dai conseguenti incendi boschivi, seguiti da brevi alluvioni e poi di nuovo dalla siccità, si stanno rendendo conto che non è più possibile ignorare il cambiamento climatico perché sta minacciando i loro mezzi di sostentamento, le loro case, la sopravvivenza stessa delle comunità locali.

Ad occuparsi di salvaguardia ambientale sono oggi i Paesi che hanno già consolidato le proprie economie, ma quanto possono incidere le loro politiche di sostenibilità in un contesto in cui economie in fase di sviluppo, come la Cina, non si pongono gli stessi obiettivi?
Ci sono nuove opportunità in gioco. La Cina, per esempio, è anche il primo produttore di tecnologia per le energie rinnovabili. Ricordo di aver parlato alla fine degli anni Novanta del fatto che l’India avesse saltato un passaggio nella tecnologia telefonica. Invece di costruire linee a terra erano passati direttamente alla tecnologia dei telefoni cellulari. Questi processi sono in corso nel mondo in via di sviluppo, dove le comunità si riversano sulle rinnovabili senza estendere la rete elettrica tradizionale. Ciò significa che la loro energia non dipende dai combustibili fossili. Queste esperienze potrebbero effettivamente essere in grado di educare il mondo industrializzato su come usare le rinnovabili per uscire dalla rete di combustibili fossili. Con l’avanzare della tecnologia, questo scenario diventa più praticabile.

Come Occidente sappiamo che il pianeta non è una risorsa infinita, ma lo abbiamo capito dopo che, attraverso il suo sfruttamento intensivo, abbiamo consolidato le nostre economie, lasciandoci alle spalle lo spettro della povertà. A quei Paesi che oggi rivendicano il proprio diritto a fare altrettanto, come possiamo spiegare che dovrebbero fermarsi e cambiare strada?
Non possiamo negare al mondo in via di sviluppo il suo pezzo di prosperità, ma non ci sono abbastanza risorse sul pianeta da alimentare una qualità della vita sul modello europeo o nordamericano. Quando guardavo le magnifiche cattedrali d’Europa, prima ne consideravo soltanto la bellezza artistica. Ora mi fermo a considerare anche il modo in cui la colonizzazione e tutte le oppressioni hanno alimentato la prosperità dell’Occidente. Non punto il dito, come nordamericano sono pienamente coinvolto in questa storia, a causa dei nostri crimini e di quelli dei nostri antenati europei. Detto questo, gli esseri umani non possono esistere senza un ambiente sano. Solo tutti noi, insieme, possiamo trasformarlo. Quindi, siamo indiani e cinesi e siamo complici nel mondo in via di sviluppo e dobbiamo tutti lavorare contro le politiche di divisione o non risolveremo mai questa crisi.

Ma se i rapporti internazionali si basano esclusivamente sul mercato e, quindi, su principi come la competitività, come possiamo condividere strategie comuni in un interesse collettivo come quello per l’ambiente?
Se le relazioni internazionali continuano ad essere basate su un capitalismo sfrenato, saremo condannati alle peggiori conseguenze del cambiamento climatico. Dobbiamo regolamentare il capitalismo. Sviluppare trattati concreti, che non siano soltanto parole a vuoto, ma che coinvolgano davvero tutti i popoli. Abbiamo bisogno di produrre energia rinnovabile e dobbiamo sviluppare altre pratiche, come il riciclaggio della plastica, che ci consentano di puntare all’eliminazione della plastica monouso, ripensando l’intera filiera dalla fonte allo scaffale del negozio, per renderne abituale un utilizzo più consapevole e fare in modo che le persone ne traggano benefici immediati. Andare oltre le chiacchiere a vuoto sull’ambientalismo è la condizione per non fallire in questa battaglia. Non possiamo permetterci di perderla.

Le fotografie che compongono l’esposizione sono di Rodrigo Baleia, Nina Berman, Ashley Crowther, James Whitlow Delano, Bernardo Deniz, Sima Diab, Luc Forsyth, Sean Gallagher, Katharina Hesse, Esther Horvath, Ed Kashi, Suthep Kritsanavarin, Matilde Gattoni, Balazs Gardi, Georgina Goodwin, Mette Lampcov, Peter Mather, Gideon Mendel, Palani Mohan, John Novis, Matthieu Paley, Paolo Patrizi, Michael Robinson Chavez, J.B. Russell, Vlad Sokhin, Jeremy Sutton-Hibbert, Sara Terry, Franck Vogel, Elisabetta Zavoli. Con il supporto tecnico di Fujifilm.