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Il coraggio di scegliere

Gianna Bandini ha recensito per TESSERE il libro di Franco Ingenito "Il coraggio di una scelta" (Effegi, edizioni), il diario di prigionia di un soldato italiano in Germania, tra il 1943 e il 1945, curato da Gian Luca Corradi

Il coraggio di una scelta raccoglie, così come trascritti nel diario di prigionia, i ricordi dei lunghi e dolorosi mesi trascorsi da un soldato italiano nei lager tedeschi, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, fino al termine della guerra nel ‘45.

Si legge d’un fiato il diario di Franco Ingenito, per la sua capacità di restituirci attraverso parole dirette, scarne ma non per questo meno efficaci, la tragedia di una generazione di giovani italiani, cresciuti con le promesse del fascismo, disillusi dalla guerra e costretti a scegliere se continuare a combatterla, a fianco di un ex alleato che si dimostra arrogante e brutale, o patire una dura prigionia.

Ed è significativo che si sia deciso di sottolineare, già a partire dal titolo, la parola scelta; vuol dire rivendicare con giusto orgoglio che la prigionia non fu il risultato delle mere circostanze belliche, ma di una cosciente decisione di fronte all’esplicita richiesta da parte dei gerarchi fascisti di aderire alla Repubblica di Salò e proseguire la guerra a fianco dei tedeschi.

Le pagine introduttive di Gian Luca Corradi ben ricostruiscono i tragici eventi che condussero oltre 600 mila soldati italiani, gli IMI (Internati Militari Italiani), dallo sbandamento del dopo armistizio ai lager nazisti, dando conto anche dei motivi che hanno portato, per molto tempo dopo la fine della guerra, a tacere sulle coraggiose scelte di quegli uomini, sulla loro resistenza silenziosa, sul fatto che 42 mila di loro non sopravvissero alla prigionia. I tedeschi, prendendo come pretesto il presunto “tradimento”, non applicarono ai soldati italiani le regole stabilite dalla Convenzione di Ginevra; nella pratica ciò consentì di utilizzarli come forza di lavoro gratuita.

Nel gennaio del 1943, Franco Ingenito non aveva ancora vent’anni; ai nostri giorni sarebbe considerato ancora un ragazzo, allora invece si doveva diventare uomini in fretta. Così, non ancora ventenne, Franco si ritrova arruolato nel terzo reggimento Granatieri dell’undicesima armata italiana e inviato in Grecia. Il suo diario si apre con l’euforia delle prime notizie giunte sull’armistizio, l’illusione della fine della guerra, del ritorno a casa; segue il racconto dei primi giorni di prigionia, della rabbia per la resa senza combattimento e la cessione ai tedeschi delle armi.

Scrive Franco: «Se fossimo stati catturati in combattimento ci saremmo resi conto della situazione e tale prigionia sarebbe stata giustificata; ma nel modo in cui siamo stati costretti a comportarci; cedere le armi così alla buona, senza il minimo atto di ribellione». Poi il suo diario ci conduce, tappa, dopo tappa, nell’inferno del lager, del lavoro fino allo sfinimento, della fame, delle angherie patite.

Tutto questo Franco lo racconta senza enfasi, senza retorica, anche quando descrive il gerarca fascista che per due volte cerca, con scarsissimi risultati, di convincere i prigionieri ad arruolarsi nell’esercito tedesco. Parlando del secondo tentativo, annota solo: «Esito: come il precedente, figura meschina da parte dell’oratore. Questa volta neppure un soldato aderì».

Così come descrive i vari lavori a cui viene adibito, gli spostamenti da un campo all’altro, i tentativi di procurarsi in qualche modo un po’ di mangiare in più. Scrive a proposito: «Si cerca di raccattare almeno qualche patata guasta nel rifiuto della cucina, ma quasi sempre siamo costretti a mangiare bucce cotte. E c’è da stare attenti a non farsi scorgere dai Tedeschi, altrimenti sono legnate». La possibilità di sopravvivenza dei prigionieri dipende da molteplici fattori: la resistenza fisica, il tipo di lavoro a cui si viene adibiti, l’incontro con un padrone meno duro di un altro.
Franco si rende conto di come le terribili condizioni di vita trascinino verso una pericolosa deriva psicologica.
Annota con sorprendente lucidità e chiarezza espressiva: «Il morale è molto basso. L’anima si rispecchia nel filo di ferro che ci circonda, arrugginito dal tempo che tutto divora e cancella. S’incomincia ad avere invidia del compagno, a diventare maliziosi, a rubare il proprio amico, il proprio fratello; ma non c’è rimedio; là dove sussiste un lungo periodo di sofferenza, di tensione nervosa, là nasce lo squilibrio mentale».

E ancora: «.. non mi è rimasto che l’orologio che mi regalò il mio babbo … Cerco di tirare avanti ancora un po’ di tempo nella speranza che non avessi avuto più bisogno di venderlo; ma qualche giorno dopo non posso più farne a meno : sono costretto a cederlo; il guadagno, ho vergogna a dirlo, è stato un filone di pane». I maltrattamenti a cui i soldati italiani vengono sottoposti col procedere della prigionia da parte dei sorveglianti del campo e dei padroni per cui lavorano, e che Franco annota, sono innumerevoli; ma nel suo diario c’è spazio anche per il racconto di gesti di comprensione, come quello della donna tedesca che lo porta a casa e lo sfama, facendogli capire di avere un figlio come lui, prigioniero in Russia.

Franco è istruito, quando è stato chiamato alle armi frequentava l’ultimo anno dell’Istituto superiore commerciale, ha buona memoria e apprende in fretta la lingua tedesca. A queste sue qualità, oltre che ad un sergente che lo segnala al comandante del campo, deve probabilmente la vita. Dopo tanta fatica a piantare patate, a costruire strade, viene scelto per un lavoro d’ufficio. Proprio il lavoro come fiduciario del campo gli consentirà di redigere una lista con i dati anagrafici e la provenienza di tutti gli internati. Lista che al termine della guerra, Franco porta via con sé. e che troviamo ora pubblicata, raro e prezioso documento storico, nelle ultime pagine del libro, insieme ad alcune fotografie che lo mostrano giovanissimo soldato, e infine, anziano signore, sorridente accanto alla moglie.

Chi voglia approfondire la storia degli Internati Militari Italiani, oltre a leggere i libri segnalati da Gian Luca Corradi nell’introduzione, può visitare il museo permanente Vite di IMI. Percorsi di vita dal fronte di guerra ai lager tedeschi 1943-1945, allestito dal 2015 nei locali dell’Anrp (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia), in via Labicana 15, a Roma.