L'ASSOCIAZIONE

Il mondo come lo vorrei in una notte d’estate

Il 30 giugno scorso si è tenuta la terza festa di TESSERE. La racconta in presa diretta, così come l’ha vissuta, Nicolò Alessi, giovane scrittore romano che, con Valentina Desideri, ha dato vita al blog su Facebook Letteratura Etilica. E che, con questo articolo, inizia la sua collaborazione a TESSERE.

Johanna Lopez alla festa di TESSERE – ph Manana Jorjikia

Dovrei esserci quasi, secondo il navigatore. La strada che adesso segna è un serpente grosso e blu lungo oramai qualche centinaio di metri, che s’infila e sparisce tra i fianchi di due colline gonfie d’alberi, l’una di fronte all’altra. Da una delle due spunta un casale di pietra bianca, lo guardo dal basso, rustico e maestoso abbracciato dagli alberi, sperando che sia proprio quello il luogo da raggiungere, la fine del serpente blu, dove c’è quella specie di mongolfiera rossa.

Siamo stati invitati alla festa di una Casa editrice fiorentina in una tipica casa colonica toscana, io e la mia amica, io e Valentina, ma io la chiamo T. Che siamo due persone dell’era in cui due persone possono anche essere una pagina Facebook dove scrivere nero su codice binario le parole che ci vorticano nella testa. Si chiama Letteratura Etilica quella pagina ed io spesso mi sento più etilico che letterato, indubbiamente.

Mi sto arrampicando sull’ultima salita e ancora ci rimane difficile crederlo. Da un certo punto di vista aspetto un’occasione simile da una vita intera, quantomeno da un anno, quest’ultimo trascorso dove ho stretto forte la penna con la voglia di non lasciarla scappare mai più. Sono le sei del pomeriggio e finalmente l’afa comincia a mollare la presa. Spengo l’aria condizionata dell’auto che si riposa dallo sforzo del climatizzatore e dalla salita che si fa più dolce e un poco pianura. Seguo l’indicazione di un foglio con il logo dell’Associazione e una freccia nera sotto, imbocco l’ingresso di un cancello di ferro dove un paio di giovani mi si parano davanti indicandomi con le braccia la direzione del parcheggio.

Un uomo vestito di lino bianco si avvicina al finestrino del passeggero con il volto sorridente d’amicizia. La sua figura ricorda quella di un guru, da lui proviene una sorta di affascinante esperienza. Abbasso i finestrini e la canzone dei Zen Circus nello stereo, Il mondo come lo vorrei. Daniele si presenta baciando la mano della mia amica e stringendo la mia, è il presidente dell’Associazione e della Casa Editrice e colui che ci ha invitato, il guru in lino bianco.

Parcheggio la macchina nel campo adiacente e siamo subito nel cortile principale del casale, che è poi quello visto e sperato da sotto. Cominciano le presentazioni ed altre strette di mano ed il mondo è già un po’ di più come io lo vorrei. Non sono riuscito a vincere la mia timidezza, ma la sto ancora combattendo, così ci avviciniamo al banchetto dove si fa la tessera dell’Associazione. Sul tavolo ci sono i moduli per l’iscrizione, copie del loro manifesto e alcuni libri che hanno pubblicati. Conosciamo la padrona di casa che ha la fortuna di vivere in quel posto magnifico e una delle ragazze che fanno parte di Tessere, una “tessera” del mosaico che compone questa grande famiglia che sto iniziando a conoscere. Si chiama Fiammetta, capelli corti e bianchi ossigenati che esplodono scapigliati in ogni direzione, sembrano una fiamma davvero.

Gli invitati continuano ad arrivare a ritmo costante, noi facciamo il giro della campagna e del giardino. La mia indole di ragazzo di campagna mi fa alzare e posare lo sguardo su tutta la natura che ho intorno, ne riconosco più della metà.

Stanno preparando gli strumenti per il concerto di dopo cena quando il sole sparisce dietro la collina alle spalle della casa e taglia in due quella davanti, aguzza e morbida d’alberi si ritrova con la punta al sole ed il resto nel fresco dell’ombra.

Conosco un gatto grosso, alto e rosso che si chiama Achille mentre la musica di un flauto arriva alle mie orecchie cavalcando i respiri tiepidi degli aliti di vento che ogni tanto soffiano timidi. Sembra provenire dall’altro fianco del casale dove ancora non sono stato. Seguo la musica e mi ritrovo davanti ad una ragazza mora, carnagione scura ed un vestito nero di estiva eleganza, seduta su una sedia suona un flauto di legno. Altre persone sono sedute vicino o in piedi che la guardano e l’ascoltano, io butto gli occhi nel vuoto, nel centro esatto delle sue mani, tra le dita che saltano da un foro all’altro del flauto, mi perdo. Torno lì che una donna dello staff vuole offrirci qualcosa da bere in attesa dell’aperitivo. La mia amica prende dell’acqua fresca, io dico «Si, grazie mille» quando nell’elenco la donna arriva al vino bianco e fresco, una meraviglia.

La gente continua ad arrivare ed i ragazzi sudano più che mai nei loro fratini ad indicare il parcheggio. Arriva l’aperitivo, pizzette e sangria, e tutti cominciano a mangiare, bere e parlare di più. Molti si conoscono e si creano gruppi di conversazione ovunque e la ragazza mora fa la seconda magia. Al posto della bacchetta magica però ha una viola da gamba, le sue dita e l’archetto che strofina sulle corde e poi allontana, per tornarci un attimo dopo sempre in maniera diversa.

Sono al terzo o quarto bicchiere di sangria quando tutti veniamo invitati a tornare nel cortile principale, dove gli strumenti sono pronti e sistemati in una piccola insenatura ad arco nelle mura del casale. Alle spalle della batteria una luce calda e gialla e un torchio per l’uva identico a quello che avevo in giardino quando ero ragazzino. Daniele prende il microfono e dal centro del cortile fa gli onori di casa, augurando una buona serata a tutti e ringraziando chiunque per essere lì. Quelli che hanno fatto anche cinque ore di treno li cerca con lo sguardo e loro annuiscono con il capo e col sorriso, c’è un’amicizia che li lega da anni e si capisce. Prima di lasciare il microfono, Daniele chiama al centro del cortile un ragazzo, venticinque anni più o meno e si chiama Filippo, lo presenta come collaboratore della Rivista e autore di una prossima e nuova traduzione di un libro sui marziani. Lui prende il microfono e comincia a parlare. All’inizio più di uno tra il pubblico rimane confuso, perché parola dopo parola il suo discorso si trasforma in un’iperbole grottesca sull’immigrazione e sui conflitti razziali, in una perfetta chiave comica, efficace, intelligente. Sì, i marziani.

Io e T facciamo a gara con una signora vicina a chi applaude più forte, c’è piaciuto molto e vogliamo farlo sentire. Prima di posare il microfono, Filippo annuncia l’apertura del buffet. C’è di tutto, una dozzina di antipasti tra cui un’insalata russa diversa dalla solita, mai vista e mai assaggiata prima d’ora. Una delle cose più buone che abbia mai mangiato, io e T ci guardiamo nelle palle degli occhi sgranati mentre assaporiamo lentamente. Ne mangiamo tre porzioni ciascuno e quando vado per prendere la quarta i vassoi sono vuoti e il gusto di quell’insalata è nei discorsi di tutti.

Arrivano un paio di primi e un maialino in crosta di pane per secondo. Faccio la spola tra il buffet e il tavolo col vino dove alla fine mi fermo a fumare l’ennesima sigaretta, tra un bicchiere di bianco ed uno di rosso. Il vino accelera nelle vene ed anche il tempo sembra andare più veloce. La band attacca a suonare sotto l’arco di pietra e la gente balla sulle pietre enormi del cortile ancora tiepide di sole. Altri ballano a piedi nudi sul prato fresco, dove gruppi di persone, tra poltrone di vimini e legno e culo sull’erba, parlano, bevono e fumano.

Conosco un ragazzo che studia farmacia e collabora con la Rivista scrivendo testi dal taglio scientifico, ci presenta Daniele, poi io e l’alcol facciamo il resto. Si chiama Amine, ha ventiquattro anni e tra lo studio e l’Associazione trova anche il tempo di lavorare. Sono queste le persone con cui amo confrontarmi, esempi da ammirare che fanno vacillare il mio ego e mi spronano a continuare a dare il meglio di me.

Mi presenta Filippo e subito mi congratulo per il testo geniale di poco prima. Mi ritrovo con lui ed altri due signori a parlare di quanto sia cambiata Firenze negli ultimi cinque anni. Assediata dai turisti e ingolfata dai cantieri per la costruzione della tramvia, mi aprono un mondo sui problemi legati alla costruzione della seconda pista dell’aereo porto e sull’inquinamento acustico che ne deriva. Mi chiedono di Roma, se è veramente così mal messa come dicono giornali e televisione, ma io oltre al dannato parcheggio che non si trova mai posso aggiungere ben poco.

C’è T che comincia a parlare dei problemi della sua città, con il tono di rimprovero controllato che ha una mamma con il figlio che ha rotto il vetro della finestra col pallone, ma è pur sempre suo figlio. T è innamorata di Roma, io posso raccontare del contorno invece, ed è un piatto sostanzioso che può sfuggire a prima vista, ve lo assicuro. Sono innamorato dei miei luoghi, del mio contorno. Ci vuole sempre l’amore per capire pregi e difetti delle persone e delle cose a cui teniamo.

Il tanto parlare secca la gola e trovo in Amine la giusta spalla per andare a “rubare” un paio di bottiglie di vino rosso e un cilindro di bicchieri di plastica. Raggiungiamo un gruppo di ragazze e ragazzi seduti sulla panchina nel cortile principale, c’è anche la ragazza con le fiamme in testa. Verso da bere a tutti quelli che rispondono «Si, grazie» e brindiamo e poi beviamo insieme. Tra i bicchieri vuoti e le ultime note suonate dalla band, la serata volge al termine.

La gente saluta e comincia a tornare a casa o magari se ne vanno a continuare la notte da qualche altra parte. Gli ultimi a rimanere siamo noi, che diamo una mano a sistemare le troppe sedie rimaste in giro e a togliere dall’umidità che scende dal cielo le poltrone di vimini e cuscini. Aiutiamo Daniele a caricare gli ultimi scatoloni pieni di libri nel portabagagli della sua auto e ringraziamo tutti, di cuore. Ci devi mettere il cuore quando hai la fortuna di incontrare persone del genere. Ci devi mettere il cuore sempre in realtà, altrimenti la vita è solo uno scorrere d’immagini veloci.

Il mattino dopo ho i postumi, mi sveglio e sono ancora ubriaco mentre camminiamo tra le meraviglie di Firenze intervallate dai cantieri, troppi davvero. Daniele ci fa da guida e ci racconta qualcosa su ogni angolo di città che ci sfila davanti, io parlo poco ma ascolto tutto, mentre cerco di sopravvivere alle vertigini e al sudore freddo. È l’ora di pranzo e ci sediamo nei posti di fuori di una tavola calda vicino alla Stazione Centrale. Arrivano un tramezzino e una bottiglia d’acqua fresca a salvarmi la vita. L’acqua e il cibo si riversano lentamente nel mio organismo ed inizio a stare meglio, a riuscire ad alzare lo sguardo quantomeno.

E la vedo, sbucare da un angolo della strada insieme ad un’amica. Vedo una poesia camminare sui tacchi, scarpe aperte e piedi curati, gambe lunghe e abbronzate che escono fuori dallo spacco del vestito giallo ocra che le si stringe in vita, sopra, un seno prosperoso. La seguo con lo sguardo mentre cammina e tutto danza, il suo vestito, le sue forme e i suoi capelli lunghi e castani. Mi pigliano vertigini d’altro tipo e pure Firenze se n’è accorta, che fra tutte le opere d’arte che custodisce ce n’è una che gli sta camminando sopra. Dopo pranzo Daniele ci porta alla mia auto, ci salutiamo con la promessa di rivederci presto. Seguo il serpente blu nel telefono e poco dopo siamo lanciati sull’autostrada.

– Comunque quell’insalata russa era eccezionale.

– Era un’insalata georgiana, me l’ha detto Daniele. E mi ha detto che la cuoca ci tiene a specificarlo perché fa parte della sua cultura culinaria. Se la chiami insalata russa s’incazza.

– Bè, rimane lo stesso una delle cose più buone che abbia mai mangiato. Accendi lo stereo va.

Mi dice T, rilassata nell’aria condizionata e con le gambe allungate sul cruscotto.

Accendo lo stereo e parte una canzone, quella canzone. E il mondo stamattina è davvero come lo voglio io.