CRITICA LIBRI

Il Natale dell’anima rileggendo Dickens

A quasi 200 anni dalla sua uscita, Canto di Natale di Charles Dickens è un libro pieno di domande e risposte di estrema attualità e che ancora commuove e fa riflettere. La prima e più importante è proprio quella che ci interroga su quale sia il senso del Natale: festeggiare qualcosa di prezioso che nasce, anzi che “rinasce” nel caso di Scrooge, il personaggio principale della storia, grazie alla miracolosa trasformazione che dal più gelido degli uomini lo rende il più gioioso.

E chi – o cosa – ha il potere di fare questo miracolo? Proprio lui, il Natale, vero protagonista del libro, capace di portare salvezza com’è venuto a portarla Gesù, la cui nascita si festeggia in questo giorno.

Nel libro sono tre i personaggi del Natale: quello del passato, del presente e del futuro. Tre fantasmi che regalano la stessa cosa: l’osservazione. Il dono che portano è la capacità di osservare.

Prima di allora, Scrooge aveva sempre e soltanto agito per fare più soldi, senza fermarsi a osservare. I fantasmi del Natale gli presentano tre diverse scene della sua vita, tratte dal passato, dal presente e dal futuro. Gli mostrano se stesso e lo rendono spettatore, non più attore, della propria vita. Vedendo quelle scene vorrebbe intervenire, agire, ma non può. I fantasmi non glielo permettono, gli consentono solo di vedere. Scrooge non ha gambe per correre, braccia e mani per afferrare, è come se fosse diventato un occhio, che può solo guardare. Tutta la sua vita era stata soltanto agire, per prendere, arraffare.

Osservando, invece, Scrooge fa un’esperienza nuova, prova emozioni. È il Natale della sua affettività, che lo aiuta a capire il gelo della sua vita e a cambiare. Capire vuoI dire cambiare e, grazie a questo cambiamento, Scrooge può conoscere la gioia.

Cambiamento, e con esso gioia, vengono da sé, spontaneamente. Scrooge, agendo per aumentare i suoi soldi, voleva la gioia, pensando gli venisse da quel tipo di azione. Ma finché la cerca non la trova; la trova quando smette di cercarla. Finché la vuole essa sfugge, viene da sola quando non la vuole.

È un punto sorprendente perché mostra la presenza, in uno dei grandi scrittori dell’Occidente, di una modalità molto Orientale. L’uomo dell’Occidente vive nella persuasione che la potenza sia agire per avere ciò che si vuole, ma non gli viene il dubbio che proprio in questo agire, avere e volere – la sua santa trinità – sia nascosto il seme dell’impotenza. Agire, avere, volere sono per l’uomo dell’Occidente valori indiscutibili. Eppure Scrooge resta impotente finché agisce per avere la gioia che cerca nei soldi, per avere ciò che vuole. La gioia sfugge proprio perché egli la vuole e agisce per averla. Agire, avere e volere non sono ciò che consente, ma ciò che impedisce la gioia.

Ecco, il racconto di Dickens invita a mettere in discussione il senso dell’agire per avere ciò che si vuole. Nel momento in cui l’uomo agisce non ha ancora ciò che vuole, ossia l’azione viene da un vuoto, da una mancanza e, quindi, da un sentimento di insoddisfazione per questa mancanza. L’uomo pensa che agire per avere ciò che vuole conduca ad eliminare la mancanza e l’insoddisfazione. L’oggetto voluto può essere qualunque oggetto – una cosa, una persona, un sentimento – e ad esso l’uomo attribuisce il potere di salvarlo dalla mancanza e dall’insoddisfazione, ossia cerca in esso pienezza e gioia. Ma l’oggetto voluto è altro rispetto all’uomo che lo vuole. Perciò, in questa logica, l’uomo attribuisce all’altro il potere di salvarlo. È l’altro che ha potere salvifico. Ma, giacché ne manchiamo, l’oggetto voluto non è nostro e allora, per ottenere la salvezza, dobbiamo agire per prenderlo – come Scrooge agisce per prendere i soldi – e, prendendolo, poterlo avere. Naturalmente, se agendo riesco a prendere e perciò ad avere l’oggetto, esso diventa qualcosa di mio, su cui esercito un potere. Ho voluto l’oggetto e ho agito per prenderlo e averlo, pensando abbia il potere di riempire il mio vuoto.

Per l’uomo dell’Occidente agire, avere, volere sono termini intimamente legati al vuoto e al potere. L’uomo agisce ma il senso di questo agire è quello di agire per prendere, per dominare. Se l’altro ha il potere di salvarmi dal mio vuoto, posso salvarmi prendendolo, ossia stabilendo un potere su chi ha questo potere. Avendo potere su chi ha potere riguardo al mio vuoto, acquisto il suo potere, cioè acquisto potere sul mio vuoto.

E così agiamo per imporci, per dominare, per esempio, la natura o gli altri uomini. Ma questo stesso atteggiamento abbiamo anche nei confronti del cambiamento e della gioia. Sentiamo una mancanza di essi, vogliamo agire per prenderli e diciamo: «voglio il cambiamento, voglio la gioia». E agiamo per imporci: su noi stessi – perché è come dicessimo «devo cambiare, devo essere felice» –e su ciò che vogliamo – perché è come dicessimo: «cambiamento devi venire»,oppure: «gioia devi venire». Vogliamo arraffare il cambiamento e la gioia come Scrooge arraffa i soldi.

Ma cambiamento e gioia non vengono perché non sì lasciano comandare né prendere. Vengono proprio quando usciamo fuori da questo atteggiamento di dominio. Come, nel caso di Scrooge, se osserviamo davvero e facciamo un’esperienza. Solo allora capiamo che cambiamento e gioia vengono da sé.

L’uomo del nostro tempo ha un volto molto diverso da quello di Scrooge e sembra esserne molto lontano. Nessuno lo rappresenterebbe con le rughe secche come fa Dickens. Ma nel profondo la sua anima è simile: anch’egli agisce per avere ciò che vuole pensando così di riempire il proprio vuoto e liberarsi dall’insoddisfazione. Anch’egli affida a questo senso dell’agire la realizzazione della propria potenza. Ma, come Scrooge, è destinato ad essere deluso. L’oggetto voluto, una volta preso, delude. Non riempie il vuoto, non placa l’insoddisfazione. E allora c’è bisogno dì volere un oggetto nuovo, in un movimento senza fine nel quale non c’è mai appagamento.

La delusione mostra che il progetto di colmare il vuoto agendo, cioè prendendo l’oggetto della volontà, era illusione. E illusione era pensare di trovare così la propria potenza. Quella che, all’interno dell’illusione, appariva come la via della potenza, si rivela, al contrario, come la via dell’impotenza. Scrooge, agendo, era impotente a trovare ciò che davvero cercava e, anzi, agire perpetuava la sua impotenza ed era l’ostacolo che impediva una trasformazione. Agire è per lui il modo per non cambiare. L’azione, che sembra la principale forza di cambiamento, sì rivela la più grande forza di conservazione.

L’uomo del nostro tempo considera evidente la superiorità dell’agire sul vedere. Ma molti segni indicano come il suo modo di agire conduca ad esiti non felici. Forse la salvezza da questi esiti, e anche dal vuoto e dall’insoddisfazione, avrebbe bisogno che l’uomo si fermasse un istante a guardare, e vedesse ciò che sta facendo, cominciasse a mettere in dubbio il senso del proprio agire.

Solo nel momento in cui vede, ossia quando smette di agire, Scrooge si trasforma e scopre dentro di sé i poteri capaci di dargli la pienezza e la gioia. Finché agiva e non vedeva, pensava che questi poteri li avesse l’altro. Ma essendo in lui, non poteva trovarli nell’altro, come non può trovare un oggetto che è in casa chi lo cerca fuori casa. Osservare consente a Scrooge di fare questa esperienza: i poteri per salvare noi stessi non li ha mai un altro, li abbiamo noi. Ciò che cerchiamo lo abbiamo già. È già nella nostra casa. Per questo l’esperienza del vedere spinge a mettere in dubbio il senso dell’agire: perché agire significa cercare all’esterno, nell’altro, fuori casa, ciò che è all’interno, in noi, nella nostra casa.

Ma nel momento in cui, grazie all’esperienza del vedere, è messo in dubbio questo senso dell’agire, avviene anche l’apertura a un nuovo modo di agire, a un altro senso. Dopo aver osservato, Scrooge riprende ad agire, ma stavolta in un modo nuovo. Fa per la prima volta un regalo, accetta un invito a pranzo, piange, sorride, chiede scusa, aumenta il salario dei suoi dipendenti, diventa umano. Vengono alla luce poteri straordinari che aveva già in sé, ma che non vedeva: «Alcuni risero nel vedere il cambiamento che s’era operato in lui, ma egli non vi badò e li lasciò ridere, mostrandosi tanto saggio da sapere che sulla terra non avviene mai nulla di buono senza che certa gente colga da principio l’occasione di farsi le più matte risate; e sapendo inoltre che costoro sono irrimediabilmente ciechi…». Ecco, agire senza vedere significa essere ciechi. Ma l’agire che nasce dal vedere è un’altra cosa: non è più agire per prendere, che viene dal vuoto e dall’impotenza, ma agire per dare, che viene dalla pienezza e dalla potenza, e significa dare, allo stesso tempo, agli altri e a noi stessi.

L’uomo del nostro tempo ha perso l’attitudine a vedere. È troppo occupato ad agire. I suoi occhi sono chiusi, non vedono. Il piccolo grande racconto di Dickens ci può suggerire che in questo Natale di oggi ci sarebbe bisogno di tre Babbi Natale che portassero all’uomo il dono dell’osservazione. Allora l’uomo, come Scrooge, potrebbe smettere di agire per ghermire una gioia che non si lascia raggiungere, e porsi così nella condizione di accogliere la gioia che, proprio quando non cerchiamo di ghermirla, si offre come un dono, come un dono di Natale.