IL NUMERO

3.200.000

Sono le tonnellate di pasta secca che si producono ogni anno nel nostro Paese. In Italia esistono attualmente 139 pastifici: 58 in Italia settentrionale, 30 in Italia centrale, 40 nella parte meridionale del Paese e 11 tra Sicilia e Sardegna.

Dire pasta è come dire Italia ed è un amore che dura da secoli. Si consumava già ai primi del Medioevo e da allora molte cose sono cambiate, ma non il piacere di mangiare un buon piatto di pasta. A confermarlo sono i dati: oggi in media ogni italiano consuma 24 chili di pasta all’anno e la nostra produzione  di 3,2 milioni di tonnellate ci rende i leader mondiali nel settore.

Ma ci sono da fare le dovute differenze: il consumo non è uguale su tutto il territorio. Al Sud si mangia più pasta che al Nord. Secondo l’elaborazione di Aidepi (Associazione delle industrie del Dolce e della Pasta Italiane) su dati IRI, nel 2016 nel Mezzogiorno sono state vendute oltre 378mila tonnellate di pasta, il 36% del totale. Il doppio rispetto al Nord Est e un terzo in più rispetto a Nord Ovest e al Centro. Nel solco di questa tradizione, la novità è il crescente gradimento per la pasta integrale: quasi la metà del campione (47%) dichiara di acquistarla, mentre tre anni fa il consumo di fermava al 14%.

Nel Mezzogiorno –secondo una ricerca Doxa-Aidepi– il 99% della popolazione mangia pasta, in media 4-5 volte a settimana e per il 48% è l’alimento preferito.

Tra Nord e Sud c’è una differenza anche sulla tipologia acquistata: da Roma in giù viene preferita la pasta secca (quattro pacchi su dieci sono venduti nel Mezzogiorno), mentre il Nord Ovest è leader per quella fresca. Di conseguenza al Sud il consumo di pasta è leggermente superiore alla media nazionale, circa 25-26 chili pro-capite all’anno. Lo scenario però sembra in evoluzione: i veri fan della pasta stanno spostando il baricentro geografico verso il Centro Italia, dove il 45% mangia la pasta tutti i giorni, contro il 32% del Meridione.

E, su tali consumi, non c’è che l’imbarazzo della scelta sul formato della pasta. Aidepi ne ha censiti oltre 300 tipi. Nella famiglia della pasta lunga, oltre agli spaghetti che sono senz’altro i più diffusi, ci si può sbizzarrire tra bigoli, bucatini, capelli d’angelo, capellini, fettuccine, linguine, mafaldine (o reginette), mezzanelli, pappardelle, pici, spaghettini, spaghettoni, tagliatelle, tagliolini, vermicelli, ziti e zitoni.

Tra la pasta corta invece, senza far torto ad anelli, avemarie, ballerine, cannelloni, caramelle, caserecce, cavatelli, chifferi, conchiglie conchiglioni, ditalini rigati, eliche, farfalle, fusilli, garganelli, gemelli, gigli, gomiti, gramigna, maccheroni, maltagliati. mezze penne, millerighe giganti, paccheri, penne lisce, penne rigate, pennette, pennoni rigati, rigatoni, ruote, sedani, sedanini, strozzapreti, tortiglioni, tubetti corta, penne e rigatoni, i formati più venduti restano indubbiamente questi ultimi.

Ogni italiano ha il suo preferito, ma anche in questo caso il Paese si divide in due, con Roma a fare da spartiacque tra due mondi e due filosofie. Dalla Capitale (esclusa) in giù la pastasciutta piace liscia, che con il 13% delle preferenze tocca le punte più alte di gradimento a livello nazionale. «Da noi nel Sud d’Italia la pasta è quella liscia per antonomasia – commenta Giuseppe Di Martino, pastaio di Aidepi e presidente del Consorzio Pasta di Gragnano IGP – e c’è una ragione ben precisa. Storicamente a Napoli, la pasta rigata veniva prodotta solo per i mercati del Nord. Era venduta dai Gragnanesi sul mercato di Roma e chiamata per questo “uso Roma”, da cui i famosi rigatoni romani, ottimi con la pajata. Vengono invece indicate “uso Bologna” le farfalle, un formato che riproduce la tradizione emiliana della pasta sfoglia e che richiede, sia in produzione che in cottura, un buon equilibrio tra le ali e il nodo. Stile “Napoli” sono invece ziti e mafaldine insieme a tutte le variazioni di formati lisci».

Va detto che il 20% del campione sostiene che non esiste un formato migliore, ma tutto dipende dalle ricette. Lo conferma Di Martino: «Basta pensare al sugo alle vongole, impensabile senza uno spaghetto o una linguina. Sono formati perfetti per abbracciare il condimento e legarlo alla pasta grazie alla leggera perdita di amido dalle sue “alette”. Allo stesso modo, è impensabile abbinare gli spaghetti a un sugo importante come un ragù napoletano perché è troppo ‘pesante’ per essere catturato tra le spire di un formato così sottile. Molto meglio gli ziti spezzati o lo spessore e la porosità di una fettuccina».

I tre fattori che rendono buona la pasta, gli indicatori di una ottima qualità, per i meridionali di regioni come Campania, Abruzzo, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia,  sono: il fatto che resti al dente e tenga la cottura (78%), il tipo di grano (71%), come riesce a legarsi al condimento (58%). Non esistono dati in merito, tra il formato più in ascesa e quello più in declino, ma secondo i dati raccolti da Unipi, Unione industriale pastai italiani, si assiste  ad un crescente consumo di formati tipici regionali. In testa: i gnocchetti sardi e le orecchiette pugliesi ma anche i paccheri napoletani.

Tra le molteplici curiosità storiche sulla pasta secca, ci piace ricordarne due; le prime testimonianze relative alla produzione di pasta secca nel nostro Paese arrivano dalla Sicilia musulmana, in epoca medievale, nel corso del XII secolo. Il geografo arabo Idrisi parla di «un importante polo produttivo di pasta in forma di fili» a Trabia, vicino Palermo, mettendola in relazione con l’attività molitoria già preesistente. È da qui che la pasta secca di semola di grano duro ha conquistato lo Stivale, passando per Napoli e arrivando a Genova.

La Sardegna e la Puglia, invece fanno scuola nel XIV e XV secolo. Sotto la dominazione aragonese, Sicilia e Sardegna sono tra i principali centri di produzione di pasta secca del Mediterraneo. Da lì la pasta partiva per Barcellona, Maiorca e Valencia, ma anche Genova, Napoli e Pisa. E nel Quattrocento si hanno testimonianze dell’attività di produzione di pasta secca in Puglia: località come Acquaviva delle Fonti, Gravina, Ascoli Satriano e Brindisi diventeranno celebri nell’arte pastaria dando vita ad un ricco commercio tale da far concorrenza a quello napoletano nel corso del XIX secolo.