IL NUMERO

58

«Un’evidente esibizione di zelo», così Enrico Pasini –  uno dei curatori della mostra “Scienza e vergogna. L’Università di Torino e le leggi razziali“, aperta nel capoluogo piemontese fino al 28 febbraio negli spazi del Rettorato – definisce la precisione con cui l’Ateneo torinese, all’entrata in vigore delle leggi razziali del 1938, schedò e preparò la cacciata dall’Università delle persone discriminate perché ebree: 58 in tutto, tra docenti, assistenti e impiegati. Tra loro, Davide Giuseppe Diena, cattedratico di Patologia, e Silvio Segre, assistente di Clinica delle malattie mentali, moriranno nei lager. Tuttavia, la caccia agli ebrei era cominciata in sordina già nel febbraio del ’38, quando il “censimento del personale di razza ebraica” era ancora solo un’ipotesi. Iniziò con un telegramma in codice inviato dal Ministero dell’Educazione Nazionale al Rettore dell’Università di Torino, così formulato: «Pregasi comunicare seguenti notizie». A seguire, una lunghissima combinazione di cifre che nascondevano la richiesta di contare il numero degli ebrei presenti nelle aule. Le testimonianze parlano di «diligenti e minute indagini» che condussero a segnalare, inizialmente, 24 professori e 288 studenti. Fu l’incipit di una delle pagine più orribili nella storia delle Università italiane.

A oltre ottant’anni dall’imposizione delle leggi razziali, l’Ateneo torinese fa oggi il punto sulle ingiustizie subite da quanti, docenti e studenti, furono allontanati dall’Istituto. Una parte dell’allestimento della mostra corre lungo l’imponente scalone che conduce alla sala “Athenaeum” della biblioteca storica “Arturo Graf”: 58 gradini recano un nome ciascuno, quelli di docenti e lavoratori dell’Ateneo, rei solo della loro appartenenza alla cosiddetta “razza giudaica”. 58 gradini, quasi 58 pietre d’inciampo, a fare memoria: tra tutti, spicca l’avvocato ed economista Gino Olivetti (fondatore e primo segretario della Confindustria), lo storico Arnaldo Momigliano e il biologo, medico ed anatomista Giuseppe Levi, che fu maestro di tre Premi Nobel (Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco e Salvador Luria). La stessa Levi Montalcini è ricordata, come assistente, dopo che le era stato concesso – in via eccezionale – di laurearsi in Medicina nel ’39. Stessa sorte era toccata a Primo Levi, laureatosi in Chimica nel 1941. Nei registri ingialliti delle “sessioni di laurea speciale”, il loro nome è accompagnato dalle due lettere in rosso “RE”, “razza ebraica”. Come spiega il Rettore Azzo Azzi  in una lettera del 1940 indirizzata al Ministero, non fu facile trovare professori che accettassero di fare da relatori.

L’Ateneo torinese uscì fortemente trasformato dall’epurazione dei 58. La Scuola di Matematica, ad esempio, subì un pesante ridimensionamento dopo la cacciata di docenti come Guido Fubini, costretto a fuggire in Argentina. Nel frattempo, vennero introdotti nei piani di studio nuovi insegnamenti razzisti, come “Demografia generale delle razze”, ad Economia, tenuto dal professor Diego De Castro, e sulla rivista studentesca “Il Lambello” apparivano di continuo vignette antisemite. Un’ulteriore infamia, messa in luce dai documenti esposti in mostra, fu il trattamento riservato a quanti, dopo la guerra, tornarono all’Ateneo torinese per essere reintegrati: vennero loro assegnate cattedre “minori”, con pochi studenti, come se la stella gialla continuasse ad essere ben visibile.

Una sezione espositiva  di “Scienza e vergogna” dedica poi un approfondimento al lavoro di tutti i docenti epurati. Indispensabile e meritoria riflessione: forse oggi, quei 58 gradini possono trasformarsi finalmente in coscienza critica.

Info sulla mostra sulle pagine web dell’Ateneo