IL PERSONAGGIO

Rohani, mediatore incompreso

Hassad Rohani è il presidente dell’Iran che ha avuto il coraggio di perseguire una sorta di “disarmo unilaterale”, consentendo le ispezioni internazionali in materia di energia atomica per ottenere la revoca delle sanzioni Usa e Ue, e che ora ha il coraggio di denunciare Trump per l’inasprirsi strumentale delle relazioni. A maggio le elezioni che decideranno quanto l’Iran crede in lui.

Hassan Rohani

Il tritacarne della politica-spettacolo – interna o internazionale – probabilmente non incoronerà mai Hassan Rohani, il presidente dell’Iran, a cui va invece ascritto il merito non tanto di aver liquidato Donald Trump, dicendo che «non è altro che un principiante della politica», ma di aver lavorato per la laicizzazione dello Stato, in un paese dove il sentimento religioso è molto forte. E ancor più per aver battuto la strada di quello che, prima della caduta del Muro di Berlino, si sarebbe detto una sorta di “disarmo unilaterale”.

È stato lui, infatti, nell’aprile 2015 a Losanna, ad aver accettato di ridurre l’arricchimento e lo stoccaggio di uranio, consentendo l’accesso nel paese agli ispettori dell’agenzia internazionale per l’energia atomica. Tutto questo per ottenere, in cambio, la revoca delle sanzioni economiche da parte di Stati Uniti e Unione Europea.

È proprio la rabbia per quell’accordo, che aveva sancito, se pur in misura ridotta, il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio, il vero motivo che, secondo Rohani, ha portato il presidente americano a sbattere la porta in faccia ai cittadini iraniani. Non certo il rischio inesistente di attentati.

Rohani, settimo presidente della Repubblica islamica dell’Iran, è un moderato che guarda al riformismo e mantiene buoni rapporti con il clero. Dopo gli indispensabili studi religiosi, si laurea in giurisprudenza all’università di Teheran, ma per la specializzazione sceglie la più affidabile Caledonian University di Glasgow. Intraprende la carriera politica al seguito dell’ayatollah Khomeini e, dopo la rivoluzione islamica, sarà deputato per cinque mandati consecutivi, dal 1980 al 2000.

Molto vicino all’ex presidente Rafsanjani, che ne ha forgiato la carriera politica, è favorevole al programma nucleare, ma fautore, nel contempo, di una politica estera di apertura internazionale.

Nel maggio 2013, dopo il disastro della presidenza populista conservatrice di Madmud Ahmadinejad, si candida alla presidenza del paese, convinto che sia arrivato il tempo di riaprire il dialogo con l’occidente.

A dire il vero, il primo a candidarsi era stato lo stesso Rafsanjani, il più conosciuto e accreditato alla vittoria. Ma il progetto gli era stato clamorosamente bocciato dal potentissimo “Consiglio dei guardiani”, che aveva escluso la sua partecipazione alla competizione elettorale. A quel punto, da politico navigato, Rafsajani rinuncia a dare scandalo e contratta direttamente con la “Guida suprema”, l’Ajatolla Kamenei, la candidatura del suo pupillo Rohani. Il patto regge e Rohani si presenta agli elettori con un’alleanza di moderati e riformisti, che nel passato non era mai stato possibile tenere insieme. Così, grazie a un’affluenza elettorale dell’80%, viene eletto al primo turno con il 50,7% dei voti, il doppio del secondo arrivato.

È così che Rohani può compiere il capolavoro della sua politica di mediazione: quello scambio, firmato a Losanna nell’aprile 2015, che sancisce la riduzione dell’arricchimento e dello stoccaggio di uranio e l’accesso in Iran degli ispettori internazionali per l’energia atomica, a fronte della revoca delle sanzioni economiche da parte di Usa e Ue.

Nel gennaio 2016 le sanzioni vengono finalmente revocate e a Tehran è festa grande. Nello stesso anno, alle elezioni del parlamento, Rohani viene premiato con il 90% dei voti nella capitale: un risultato che gli consente di aggiudicarsi tutti i 30 seggi in lizza, oltre a guadagnare terreno anche su base nazionale. L’unione delle forze con il riformista Katami ha permesso all’Iran di aprirsi al mondo. Questa è la storia di un grande successo.

Ora si avvicina la scadenza del mandato: le elezioni sono fissate il 19 maggio prossimo. Ecco però che lo scenario improvvisamente si complica e il progetto di riformismo moderato di Rohani comincia a perdere pezzi.

I primi segnali di guerra arrivano dal Senato Usa, che, con voto unanime, estende le sanzioni per altri dieci anni. Rohani reagisce con un’azione legale contro gli Stati Uniti per violazione degli accordi e con la ripresa della ricerca per realizzare propulsori nucleari per trasporti marittimi.

A quarant’anni dalla rivoluzione islamica, iraniani e americani continuano a non fidarsi gli uni degli altri. Il prolungamento delle sanzioni diventa oggetto dei sermoni dei massimi esponenti religiosi nelle preghiere del venerdì.

Intanto l’accordo di Losanna procede a rilento e risulta che solo l’Iran lo ha rispettato. Il primo colpo alla schiena per Rohani arriva dalla “Guida suprema” in persona, che mette in guardia sulle “falsità” dei governanti americani e invita i vertici iraniani a non fidarsi delle loro promesse, perché “hanno sempre mostrato ostilità nei confronti dell’Iran”.

Poi, per Rohani, tutto sembra andare a rotoli. L’8 gennaio muore il suo mentore Rafsajani, personaggio carismatico, capace di farsi ascoltare dalla “Guida suprema” e di tenere insieme moderati e riformisti. Il suo ombrello non lo potrà più proteggere. Senza di lui il presidente rischia di essere ridimensionato.

Il 20 gennaio Trump s’insedia alla Casa Bianca e ovviamente promette guerra continua all’Iran. Benjamin Netanyahu, che tanto aveva scalpitato ai tempi di Losanna, ora ha un amico fedele alla Casa Bianca.

Anche a Tehran l’entusiasmo comincia a calare. Del rilancio economico tanto atteso ancora non si vede l’ombra. Una cosa è il successo politico e un’altra sono gli affari che non decollano.

Nessun candidato credibile si è ancora affacciato a mettere in discussione la leadership del presidente. Ancora una volta i giochi ruoteranno attorno alla “Guida suprema”, che, per il momento, non si pronuncia. Ma non è detto che la religione, alla fine, si mantenga neutrale.

Rohami ha capito che i tempi sono cambiati e anche lui ha cambiato registro, abbandonando il tono da mediatore e sposando quello barricadiero, fino ad attaccare Obama, che se ne sarebbe andato senza assumere, sull’Iran, alcun provvedimento e lasciando così campo libero a Trump.

Ma non è detto che tutto questo sia sufficiente. Il rischio è quello di resuscitare gli anni bui del populismo conservatore. Non resta che augurare lunga vita anche al Rohani con l’elmetto.

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