Con la reciprocità ci avventuriamo su una strada sdrucciolevole, specie se siamo abituati a dare per avere in cambio qualcosa. La parola è di origine latina, ci dice la Treccani, dal latino tardo reciprocĭtas -atis, der. di reciprŏcus «reciproco». Ci dice anche che il suo significato primario è «la condizione di essere reciproco; rapporto, carattere o valore reciproco». Seguono poi gli utilizzi tecnici e scientifici della parola, dall’economia alla fisica, dalla matematica al diritto internazionale.
Una parola al giorno, invece, ci dice: «Dal latino: composto di recus indietro e procus avanti. Ciò che torna». Ecco, ciò che torna; non subito magari, ma comunque torna. In un modo o in un altro, in un tempo o in un altro. E continua: «La reciprocità inizia con un munifico atto di fede. Non ci sono assicurazioni né garanzie che quel che diamo torni. Ma se non importa, se si sceglie comunque di diventare per primi ponti-verso, allora si dà alla reciprocità la possibilità di nascere e vivere: la torre diventa una rete». Qui la reciprocità è possibilità di umanità, di accoglienza, di pace in terra fra uomini di buona volontà.
Esiste poi un principio di reciprocità nel diritto, e anche le banche non hanno potuto fare a meno di appropriarsene – una rapina vera e propria – con questa agghiacciante definizione: «Situazione che si presenta quando un soggetto assicura o promette ad un altro un trattamento uguale o equivalente a quello che questi a sua volta gli assicura o promette. Questa definizione non è che una semplificazione del concetto, poiché in realtà la reciprocità si identifica con l’essenza stessa del sinallagma, ossia di qualunque rapporto di tipo contrattuale» (questa meraviglia della consecutio, monade senza né porte né finestre, la trovate qui). Un contratto, quindi: tutto qua, fine della storia, morte della poesia.
Fortunatamente, gli esseri umani sono molto più antichi delle banche, prima di fare contratti “reciproci” si dilettavano di altri tipi di scambio, e si facevano pure regali: perché «ti faccio un regalo» vuol dire che in cambio non voglio proprio nulla, niente altro che la tua contentezza. Invece il contratto, triste ma vero, è reciproco: impegna entrambi i contraenti. «Altro che non ci sono assicurazioni né garanzie che quel che diamo torni. Ma se non importa…» e figuratevi se ai contraenti non importa!
Ci interessa molto di più la reciprocità di cui ci parla l’antropologia, quella disciplina che cerca nell’essere umano leggi scientificamente dimostrabili, a volte senza esito. La norma di reciprocità è considerata in antropologia un universale culturale, ovvero una norma comune a tutte le culture.
Per la popolazione andina Q’ero, in Perù, il concetto di reciprocità è espresso dalla parola ayni, ed è uno dei cinque principi che definiscono la loro vita, assieme a munay (amare), yachay (imparare, sapere e ricordare), llan’kay (lavorare), kawsay (vita); tuttavia ayni è il principio più importante, perché costituisce l’ossatura della vita, in quanto non definisce solo l’aiuto reciproco, ma anche lo scambio di energia tra esseri umani, natura e universo. Secondo la legge dell’Ayni se qualcuno mi procura un beneficio non devo per forza restituirlo alla stessa persona; posso restituirlo anche ad altri. Basta che l’energia circoli. Dal che si deduce che la reciprocità esiste dalla notte dei tempi, fra gli esseri umani, e che comprende l’universo e tutti gli esseri viventi.
Poi arrivano quelli del marketing e dicono che la prima regola della reciprocità è l’obbligo a dare quando ricevi: benvenuti in Occidente! Quel che era libero diventa coatto, obbligato, ridotto ad equazione, terra terra (e povera Terra). Date qualcosa al cliente, e lui si sentirà in obbligo di ripagare: come? Comprando, ovviamente.
A volte poi quel che pensiamo reciproco è solo nella nostra immaginazione, nell’idea che ci siamo fatti del nostro personale universo, come Furio con sua moglie:
«Magda, tu mi adori? e allora lo vedi che la cosa è reciproca?»