CRITICA DIALOGARE IN PACE MOSTRE VISIONI

In altalena con Lidia

“Te veo, Me veo”: nelle installazioni della dominicana Lidia León, nell’isola della Giudecca, a Venezia, un manifesto contro le diseguaglianze
Te veo, Me Veo

Lidia León ha un sorriso che conquista, mentre invita i presenti a visitare la sua installazione Te veo, Me veo, appena inaugurata nella Chiesa palladiana delle Zitelle a Venezia, nell’isola della Giudecca, giusto in faccia a Piazza San Marco. L’artista dominicana, che espone per la prima volta in Europa, fino al 30 settembre, ha concepito una struttura ovoidale al centro dello spazio disponibile, una sorta di gigantesco dirigibile composto da lamiere specchianti in alluminio, in cui il pubblico può entrare. All’interno Lileón – così si fa chiamare Lidia – ha posto un’altalena basculante, seminascosta da una quinta di tessuto nero; al centro della quinta, una finestra ovale, realizzata in fibre sintetiche e plastiche: sui due lati dell’altalena, alternativamente, le persone (una fuori e una dentro al grande uovo) possono vedersi. Appunto Te veo, Me veo. Il gioco – a parte l’effetto scenografico del grande oggetto che riflette la luce del sole – sembra semplice, ma ha invece un significato profondo. Lo ribadisce Roberta Semeraro, che con Iris Peynado ha curato la mostra: «L’artista è partita da Kant, il Kant della Ragion Pratica, laddove afferma: “Agisci in modo da trattare l’umanità sia nella tua persona che in quella di ogni altro sempre come fine e mai come semplice mezzo”».

Così l’altalena di Lileón riprende il tema fondamentale della reciprocità dei rapporti umani, intesi come condivisione e rispetto: «Tutti siamo interconnessi – spiega l’artista – come gocce dello stesso oceano. Nel mio lavoro, cerco di spiegare questa consapevolezza, quasi il riflesso di una realtà collettiva più ampia». Il suo è un pensiero apparentemente ovvio, in realtà scaturito da una necessità imprescindibile: quella dell’integrazione come ricchezza interiore. «Molte delle mie proposte – prosegue – promuovono l’inclusione sociale proprio attraverso il gioco: risolvendo le tensioni, almeno simbolicamente, stimolando l’immaginazione. Per questo lavoro spesso, nel corso delle mie mostre, con workshops tematici, a contatto con la gente. Ne ho pensato uno anche per questa tappa veneziana, durante l’Art Night del 22 giugno. In fondo, invitare il pubblico ad interagire alimenta il bisogno di socialità, ma soprattutto promuove uno spazio di rispetto».

Lidia Leon

Il medesimo rispetto che Lidia León dedica agli umani è rispecchiato anche nelle altre installazioni che movimentano l’interno della Chiesa: Wabi Sabi le ha chiamate Lileón, secondo il principio (etico ancor prima che estetico) che struttura la sua arte. Non per nulla lei, architetto, cita con gioia la concezione del giapponese Tadao Ando (conosciuto in laguna per il suo intervento di restauro di Punta della Dogana), quando sostiene che Wabi Sabi è l’arte di cercare la bellezza nell’imperfezione, accettando il deterioramento inevitabile, la morte. È qualcosa che anche Lidia valuta come naturale, autentico. Di qui i minerali ossidati di Horizonte, dove è intervenuto il sale marino a trasformare le storie; la memoria di ogni Sindone – legno, tela e trascorrere del tempo – in Quién ha tocado mi manto?; impronte di foglie di tabacco sulla carta, ad evocare piantagioni.

L’intera mostra – realizzata dalla Fondazione Lileón, con l’Associazione culturale RO.SA.M., e dall’Ambasciata italiana a Santo Domingo, in occasione delle celebrazioni dei centoventi anni delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e la Repubblica Dominicana – è un manifesto evidente contro ogni discriminazione. C’è l’apparenza e c’è, più vicina al cuore, la coscienza di noi e delle cose; caduca, impermanente, ma intensa. Come la voglia di Lidia di cambiare il presente, prendendo gli altri per mano e facendo loro vedere, con un sorriso, tutto il buono che c’è.