CRITICA LIBRI

Ipotesi parricidio nel Galileo di Brecht

Tino Buazzelli nel Galileo di Brecht allestito da Giorgio Strehler nel 1962

Due sono i punti centrali dell’opera di Brecht su Galileo. Il primo riguarda la concezione della scienza e la funzione dello scienziato.

Il Galileo di Brecht avviene sullo sfondo di un avvenimento epocale e rappresenta uno scontro grandioso, che si potrebbe configurare con diverse coppie di concetti: il conflitto tra universo antico e universo moderno, tra ragione e fede, tra religione e scienza, tra autorità e libertà, tra menzogna e verità.

Si avverte nel testo il senso di un cambiamento radicale e di una grande liberazione. Muore l’universo antico. Comincia una nuova era. Crollano le mura che circondano e imprigionano il mondo, l’universo si dilata, l’uomo ha improvvisamente di fronte uno spazio aperto e c’è voglia di viaggiare. Paura e coraggio convivono davanti a una grande avventura che comincia. Crolla la differenza tra terra e cielo. Non c’è più il cielo. Il cielo come fino ad allora si era conosciuto, diverso dalla terra, fatto di etere, materiale purissimo e incorruttibile, sottratto al divenire, libero da nascita e morte, non esiste più. Dice Galileo all’amico Sagredo nell’opera di Brecht: «oggi, 10 gennaio 1610, l’umanità scrive nel suo diario: abolito il cielo».

E con esso tramontano le idee di millenni. La terra, e l’uomo che la abita, non sono più il centro dell’universo, e l’umanità subisce la sua prima, grande, ferita narcisistica.

Ma un punto chiave del testo di Brecht è questo: il carattere politico del sapere. Il sistema aristotelico tolemaico viene difeso soprattutto per motivi politico sociali. In quel sistema, l’immobilità e l’ordine della terra e del mondo servono a giustificare l’immobilità e l’ordine della società. La gerarchia alto/basso nell’universo ha lo scopo di conservare la gerarchia alto/basso, cioè poveri/ricchi, umili/potenti, nella società. La concezione biblico aristotelica dà un senso alla miseria e alla sofferenza dei poveri perché le inserisce in un disegno divino, le spiega e promette loro ricompensa nell’altra vita. Miseria e sofferenza nell’“al di qua” servono a guadagnare ricchezza e gioia nell’“aldilà”. Ma così i poveri sono indotti ad accettare la miseria e la sofferenza e a non ribellarsi. E però Galileo esclama a un certo punto con rabbia «vedo bene la divina pazienza della vostra gente, ma la loro divina furia dov’è?»

Ora la teoria copernicana, demolendo il mondo antico, demolisce tutto questo. Le stelle non bastano più a giustificare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Il cannocchiale è davvero un cannone puntato contro i potenti che nascondono la verità nella nebbia della menzogna per mascherare i loro intrighi.

La scienza deve combattere due battaglie. La prima è quella di sollevare la verità contro la menzogna. La seconda è sollevare i poveri contro i potenti. E con queste due battaglie può raggiungere il suo unico, solo scopo: alleviare le fatiche dell’esistenza umana. Un risultato che non è possibile ottenere senza l’autonomia della scienza dal potere.

È un grande tema. Se la scienza è alleata col potere, oppure, dichiarandosi neutrale, si lascia usare dal potere, si allontana dall’umanità. Lo scopo della scienza è agire a vantaggio dell’umanità, cioè di tutti, quindi essa è per natura egualitaria e perciò rivoluzionaria rispetto a un ordine sociale gerarchico.

Il punto decisivo è che i potenti hanno ostacolato la verità e l’hanno ostacolata perché la verità è rivoluzionaria. La verità svela la falsità dei potenti e smaschera menzogne di secoli. La chiave dell’opera di Brecht può essere riassunta proprio con queste parole: la verità è rivoluzionaria.

Ora tutto questo, nel testo, è espresso dalla figura di Galileo con la massima forza. Ma poi tutto questo è anche rinnegato da Galileo con la sua abiura. E qui entra in gioco il tema della funzione dello scienziato e, più in generale, dell’intellettuale.

Agli occhi di Brecht l’abiura, cioè il tradimento di Galileo, è il peccato originale della scienza moderna, quello di essersi piegata ai potenti e separata dal popolo, e di aver cercato il sapere per il sapere, disinteressandosi dell’uso pratico che poi ne sarebbe stato fatto e perciò facendosi complice dei maggiori misfatti.

Galileo ha tradito, e con il suo tradimento è il primo responsabile ed il simbolo stesso della separazione profonda che si è prodotta nell’età moderna tra intellettuali e popolo. Abiurando, ha accettato l’immobilità della terra, la gerarchia alto basso e l’immutabilità dell’oppressione, e ha commesso un crimine verso la scienza e verso l’umanità perché ha tracciato la strada sulla quale sono stati possibili, poi, avvenimenti come Auschwitz ed Hiroshima, che sono l’ovvia conseguenza del servilismo della cultura verso i potenti.

Brecht è tedesco. Ha visto gli scienziati tedeschi vendersi al nazismo. Galileo, come simbolo del tradimento degli intellettuali, è agli occhi di Brecht indirettamente responsabile di Auschwitz ed Hiroshima.

Alla fine Brecht fa pronunciare a Galileo una durissima autocritica nella quale riconosce la colpa del proprio tradimento e i pericoli che possono venirne per l’umanità. L’ultima scena dell’opera si apre con queste parole: «ecco la luce della scienza, fatene buon uso perché non avvenga che una pioggia di fuoco un giorno ci divori tutti quanti, sì tutti quanti».

Il secondo punto centrale dell’opera di Brecht riguarda la vita di Galileo. Non a caso è questo il titolo dell’opera. La figura di Galileo come Brecht ce la presenta è affascinante, ma proprio per la sua complessità, che è anche incoerenza, contraddittorietà, ambiguità. Da un lato è uomo della mente, dall’altro della carne. Da un lato è uomo di scienza, dall’altro si piega alla religione. Da un lato dice che chi rinnega la verità è un criminale, dall’altro lato, abiurando, lui stesso lo fa. Dice una cosa e ne fa un’altra. Non è un eroe, è ambiguamente umano.

Giordano Bruno, che ai giudici che lo condannano a morte dice «avete più paura voi», e che sul rogo davanti al crocefisso volge sdegnosamente lo sguardo da un’altra parte, è l’eroe. Galileo, che abiura, è il non eroe. Certamente sono entrambi affascinanti, ma per motivi diversi: Bruno per l’eroismo e la grandezza della sua coerenza, Galileo per la sua umana, umanissima incoerenza, e per l’enigma della sua ambiguità. Questo enigma, tuttavia, noi dobbiamo almeno tentare di scioglierlo.

Ora non ci sono dubbi che per Brecht ci sia nella vita di Galileo un episodio assolutamente decisivo, tuttavia assente nel libro. La scena più importante della vita di Galileo di Brecht è quella che non c’è. Ossia l’abiura. Si vede la scena prima, si vede la scena dopo, ma l’abiura non si vede. Eppure nel lavoro di Brecht tutto ciò che c’è ruota intorno all’abiura, a ciò che non c’è.

E qui, la domanda delle domande è inevitabilmente quella nella quale può essere condensato tutto l’enigma di Galileo: perché ha abiurato? A questo proposito ci sono nel testo di Brecht due tesi principali.

La prima è quella espressa dall’allievo Andrea Sarti alla fine: Galileo ha ritrattato per restare in vita e poter continuare a studiare favorendo il progresso della scienza a vantaggio dell’umanità. È questa un’interpretazione positiva dell’abiura, che dice: Galileo ha fatto bene ad abiurare.

La seconda tesi ha invece proprio nel Galileo di Brecht il rappresentante più autorevole. Nella sua autocritica finale lo scienziato confessa di aver indegnamente abiurato per viltà, per paura delle torture e del dolore fisico. È questa un’interpretazione negativa dell’abiura, la quale dice: Galileo ha fatto male ad abiurare. È anche la tesi ultima di Brecht.

Ora queste due interpretazioni sono opposte ma, a mio parere, crescono su uno stesso terreno: il fatto che entrambe condividano due punti. Il primo è l’idea che tra il Sant’Uffizio e Galileo ci fosse un disaccordo, un disaccordo di fondo. Il secondo è la convinzione che Galileo abbia abiurato ma in fondo non credesse alla sua abiura. Abbia ritrattato fuori, all’esterno, a parole, ma non dentro, all’interno, col pensiero. Ha detto «do ragione a voi ma penso di aver ragione io».Ha abiurato, ma dopo ha esclamato, come narra la leggenda, «eppur si muove».

Io vorrei invece proporre una terza ipotesi, che per la verità non c’è nel testo di Brecht, il quale contiene però certi elementi che a mio parere possono suggerirla e autorizzare a formularla. Un’ipotesi che mette in dubbio le prime due interpretazioni a partire proprio dal loro terreno comune, secondo la quale non c’è tra il Sant’Uffizio e Galileo disaccordo ma anzi c’è accordo di fondo, e per la quale Galileo non ha abiurato solo esternamente, ma anche internamente. Era cioè convinto di abiurare e pertanto ha abiurato davvero. Vorrei proporre di prendere assolutamente sul serio l’abiura di Galileo.

La prima di quelle due interpretazioni – quella positiva – per la quale lo scienziato ha ritrattato per continuare la ricerca scientifica a vantaggio dell’umanità, nell’opera di Brecht è appunto smentita nettamente da Galileo stesso, e quindi da Brecht, il quale pertanto boccia drasticamente un’interpretazione positiva del comportamento dello scienziato.

La seconda – quella negativa – si scontra, nel testo, con almeno due grosse difficoltà. Questa tesi dice che Galileo ha ritrattato per paura del dolore fisico. È la tesi più semplice, più comune, più ovvia. Sì però quando Galileo si trovava a Firenze, ed era scoppiata la peste, si era dimostrato del tutto indifferente al dolore fisico. Aveva continuato i suoi studi, rifiutandosi di fuggire da Firenze, incurante della peste, nonostante essa fosse una minaccia di dolore e di morte certo superiore alle minacce dell’Inquisizione. La madre di Andrea Sarti, infatti, rimasta lì per assistere Galileo, era morta proprio tra i dolori della peste. Allora – prima difficoltà – come si spiega che Galileo abiuri per paura del dolore, quando in altra occasione si è dimostrato del tutto incurante del dolore?

E poi – seconda difficoltà – Galileo sostiene alla fine di essersi convinto di non aver mai corso rischi gravi. Allora perché ha perso la dignità abiurando? E, se non li ha mai corsi, a maggior ragione non li corre ora che è vecchio e malato, e allora perché non rinnega adesso, anche dopo tanti anni, da vecchio, la sua abiura, se la considera così indegna? Sarebbe sempre in tempo.

Ora ciò che possiamo dire è che certamente, con la versione che dà, Galileo spiegala sua abiura, le dà una ragione, la razionalizza. C’è una ragione per cui ho abiurato: la paura del dolore. Ma questa razionalizzazione, proprio perché contrasta con quelle difficoltà, fa sorgere il dubbio che nasconda qualcos’altro. E stimola a scendere nel sottosuolo del testo.

Tra l’altro nell’autocritica egli esagera la sua colpa e il proprio autodisprezzo, come quando dice ad Andrea Sarti – ormai divenuto adulto e scienziato egli stesso – «ho messo la mia sapienza a disposizione dei potenti perché ne abusassero a seconda dei loro fini. Ho tradito la mia professione. Quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza… ormai anche tu insegni. Come puoi permetterti di stringere una mano come la mia?»

Qui Galileo eccede. Quello che dice non è del tutto vero, si dipinge troppo cattivo. Perché esagera la sua colpa? Ecco se uno grida troppo forte «ho fatto male, ho fatto male»fa venire il sospetto che lo faccia per non sentire la voce che invece dice «ho fatto bene».

Ma, così, questa voce resta nascosta e ciò significa che non sale e non arriva alla coscienza. Dunque dev’essere una voce inconscia.

La mia proposta è di provare a pensare che non si sciolga l’enigma Galileo se non si vede il suo comportamento come interferenza di due piani, uno cosciente ed uno inconscio, ed è quella di prendere in considerazione l’ipotesi che Galileo possa aver abiurato non per un motivo cosciente, ma inconscio. E che la versione cosciente – «l’ho fatto per paura» –possa essere una razionalizzazione per mascherare il vero motivo, quello inconscio. Propongo di aprirsi alla possibilità di pensare che Galileo abbia abiurato perché ha volutoabiurare, e non per paura del dolore. Ma per scontare una colpa.

Galileo ha sfidato nel modo più radicale l’autorità: di Aristotele, della chiesa, del cardinale Bellarmino, del Papa. Ma la chiesa crede alla parola di Aristotele perché ai suoi occhi coincide coi testi sacri. E i testi sacri crede li abbia ispirati Dio. La chiesa rappresenta Dio in terra. Dunque Galileo, sfidando Aristotele e la chiesa, ha sfidato in fondo la parola di Dio. Ha trasgredito il suo divieto, espresso nel 1616 per bocca del cardinale Bellarmino, che lo aveva ammonito a non sostenere la teoria copernicana. Ha disobbedito. La colpa di Galileo è la stessa di Adamo: aver mangiato la mela della conoscenza che Dio aveva proibito.

E allora Galileo coscientementeha solo cercato di sapere: in un punto molto intenso del libro esclama «io devo sapere».Ma inconsciamenteha tentato di negare, detronizzare Dio. Ha fatto vedere che Dio ha torto. E un Dio detronizzato, un Dio che ha torto, non è più un Dio. L’amico Sagredo dice a Galileo: «E dunque, che esistono solo delle stelle? Dov’è Dio allora?»Galileo risponde: «Lassù no». Sagredo incalza: «Eallora dov’è Dio? Dov’è Dio nel tuo sistema del mondo?»E Galileo: «In noi, o in nessun luogo. Io credo nell’uomo e questo vuol dire che credo alla sua ragione».

Dunque c’è un Dio nell’uomo e questo Dio è la ragione. Come si vede, nel testo di Brecht Dio è cancellato. Quando Galileo fa vedere, col cannocchiale, la morte dell’universo antico, è come facesse vedere la morte di Dio. Il cielo è simbolo del divino e l’affermazione di Galileo che non c’è più il cielo suona come l’affermazione che Dio è morto. Il cannocchiale, che penetra il mistero dell’universo, è il coltello che uccide Dio. E Galileo è il suo assassino.

Ma, uccidendo Dio, Galileo chi uccide? Ecco: Dio, Aristotele, Bellarmino, il Papa, il cielo, in una sola parola l’autorità, sono tutte diverse espressioni di una stessa figura. Non è difficile riconoscere che queste varianti abbiano tutte a che fare con la stessa figura del padre. Galileo ha sfidato il papa. Ma il papa è papà. Ha sfidato Dio. Ma Dio è Dio padre. Cioè Galileo ha sfidato il padre.

Qual è allora la colpa? La colpa inconscia è il desiderio di spodestare il padre, che equivale in fondo a un parricidio. È l’aggressività del figlio che vuol prendere il posto del padre, come l’universo del figlio – quello copernicano – prende il posto dell’universo dei padri. Galileo ha ucciso il grande padre Aristotele. Ha ucciso Dio. Simbolicamente ha ucciso il padre.

In questo senso dico che tra Galileo e il Sant’Uffizio c’è, al di là delle apparenze, un’intesa e una solidarietà di fondo. Entrambi si trovano d’accordo sul fatto che ci sia colpa e su quale essa sia. È come se il Sant’Uffizio gli dicesse «tu sei colpevole, ammettilo, perché vuoi uccidere l’autorità, cioè il padre» e Galileo, scoperto nelle sue motivazioni segrete, abiurando rispondesse «sì è vero, lo ammetto, sono colpevole proprio di questa colpa». Dove la colpa si accompagna al senso di colpa, che spinge Galileo, con l’abiura, a rivelarla e insieme a rinnegarla. Egli profondamente pensa di essere colpevole e perciò sia giusto ritrattare ed essere punito.

Galileo compie un atto così dissacrante, la negazione della parola del padre, del padre Aristotele, certificata dalla parola divina, la parola paterna per eccellenza, che avverte il senso di colpa. Galileo compie un’azione tale da poter dire che non ci fu mai azione più grande. E di fronte a un gesto così immenso, a un’infrazione così inaudita e devastante, avverte il senso della colpa.

La mia tesi è che meriti di essere considerata la possibilità – sia chiaro soltanto la possibilitàche l’abiura di Galileo sia autentica, perché motivata dal senso di colpa, in virtù del quale egli pensa di meritare, per il gesto che ha compiuto e che equivale simbolicamente a un parricidio, di essere punito. Magari con il confino, nel quale invecchiare isolato e cieco – come Edipo, come Faust – e dove isolamento e cecità abbiano il sapore di una desiderata espiazione, per riparare il danno di quel gesto tremendo con cui, in una notte chiara, aveva puntato il cannocchiale verso il cielo, e cancellato duemila anni di storia.

Giorgio Strehlet legge alla Rai il Galileo di Brecht

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