Nei millenni ci si è sempre serviti delle mani o di coltelli appuntiti per portare alla bocca il cibo. L’uso della forchetta produsse un enorme scandalo quando, intorno al Mille, la figlia dell’imperatore bizantino Cristiano IX, sposa del Doge Giovanni Orseolo II, venne a Venezia portando con sé una forchettina d’oro a due denti per mangiare: quando, nel 1005, la sfortunata giovane si ammalò di peste e ne morì, i nobili veneziani stabilirono che questa era la punizione divina per tale oltraggiosa perversione conviviale.
In Inghilterra nel 1297, nell’inventario di Edoardo I d’Inghilterra, vengono menzionate per la prima volta le forchette. Bisogna arrivare però al Cinquecento per respirare l’aria nuova che investì tutta la società urbana e determinò nuove condizioni di vita e nuovi stili comportamentali per trovare quindi improvvisamente diffuso l’uso delle posate a tavola, compresa la forchetta.
Nel 1574-75 il futuro re Enrico III di Francia, figlio di Caterina de’ Medici, durante un viaggio in Italia, fu notato per l’uso ostentato di posate e soprattutto di forchette.
Nel 1581 Michel de Montaigne compì il suo viaggio in Italia rilevando, tra le altre abitudini, l’uso quotidiano della forchetta individuale; ospite a Roma del Cardinale De Sans, lo scrittore francese constatò la presenza in tavola di cucchiaio, coltello e forchetta, sistemati tra due salviette insieme al pane, al posto di ciascun commensale.
Fino a una certa epoca le trasformazioni dei costumi sociali e della buona educazione si sono succedute molto lentamente, affermandosi poi grazie allo sviluppo della civiltà e all’estendersi delle consapevolezze culturali, in seguito alle scoperte geografiche, scientifiche e tecniche dei secoli.
L’uso diffuso della forchetta giunge oltre la metà del ‘700, quando apparvero gli spaghetti (vermicelli). Pare infatti che soprattutto per agevolare la presa dei “fili di pasta”, il ciambellano di re Ferdinando IV di Borbone abbia portato a quattro i denti della posata, determinandone l’aspetto che ancor oggi conserva.
Entrata nel linguaggio della statistica e dell’economia, per non dire di quello di certa politica più banalizzata, il termine ha assunto – spiega il Vocabolario Treccani – il significato dell’«ampiezza della possibile oscillazione tra un valore minimo e uno massimo».
Quel santuario del sapere linguistico italiano cita alcuni articoli di giornale nel quale la parola forchetta è stata impiegata.
“Il Foglio” del 7 dicembre 1999: «L’ultimo esempio è stato l’Enel. La più grande offerta pubblica di vendita fatta in Europa: trentamila miliardi. Il Tesoro ha utilizzato il suo potere per incassare: ha ampliato la quantità delle azioni offerte rispetto all’iniziale previsione e ha scelto il prezzo più alto nella forchetta di ipotesi inizialmente individuate. Insomma ha cambiato, a proprio favore e del tutto legittimamente, l’offerta».
“Sole 24 Ore” del 20 agosto 2007: «Per definire un contribuente minimo si guarderà in primo luogo ai suoi ricavi annui, e le ipotesi finora formulate indicano una forchetta compresa tra i 20 e i 30mila euro».
“Il Giornale” del 9 maggio 2008: «Abbiamo indicato una forchetta di risultati e non un numero preciso – ha spiegato Alessandro Profumo –perché bisogna tenere conto dell’alta volatilità dei mercati finanziari».