LA PAROLA

Giornale

Quella che per Hegel era «la preghiera del mattino dell’uomo moderno», oggi è un oggetto forse in via d’estinzione, che tra qualche generazione si potrà ammirare solo nei musei. La visione pessimistica è dovuta al fatto che i giornali cartacei sono sempre meno venduti, soppiantati da quelli online, ai quali appartiene anche quello che state leggendo. Giornali come TESSERE hanno certamente il merito di risparmiare tanti alberi ma, Millenials a parte, gli umani che affondano le proprie radici nel secolo scorso un po’ sentono la nostalgia di quei fogli, spesso scomodi da leggere, ma che erano conformi a ritmi di vita meno frenetici.

La buona notizia è che il giornale non può morire, come pronosticano già da alcuni decenni quelli che vedono il bicchiere mezzo vuoto, perché è soltanto un supporto e i contenuti sono in grado di viaggiare su altre piattaforme. Del resto, l’etimologia stessa della parola ce lo fa capire; giornale, infatti, non nasce come sostantivo ma come aggettivo: si diceva il “foglio giornale” e il “libro giornale”, cioè che esce ogni giorno. La derivazione è infatti dal latino diurnum, giornaliero, perché quella era la periodicità prevista in origine. Soltanto alla fine del Settecento giornale è scomparso come aggettivo nel senso di quotidiano. Nel frattempo il sostantivo aveva cominciato a indicare non solo prodotti editoriali che uscivano tutti i giorni ma anche pubblicazioni che avevano una frequenza diversa nelle uscite.

In passato giornale era anche sinonimo di diario (ricordate Il giornalino di Gian Burrasca?). Sullo stesso modello sono nati il giornale di bordo, il giornale di navigazione, il giornale di carico, il giornale dei lavori, ecc., cioè registri in cui vengono annotate le attività quotidiane. I termini giornalino e giornaletto, per indicare i fumetti o i giornali per ragazzi, si diffondono negli anni Cinquanta e li ritroviamo per la prima volta nei Racconti di Calvino e in Una vita violenta di Pasolini.

Oggi, per estensione, con giornale si indica anche il luogo in cui ha sede la redazione («vado al giornale») e l’insieme delle persone che ci lavorano («il giornale ha deciso di proclamare lo stato d’agitazione»).

I giornali, come per i giornalisti, non hanno mai goduto di buona stampa. «Quei bordelli del pensiero che si chiamano giornali», li definiva Balzac, che aveva fatto per un certo periodo il giornalista, per altro con risultati fallimentari. Il mondo del giornale – e questa non è una frase fatta perché quello del giornale è davvero un mondo – viene narrato molto bene dall’autore della Comedie humaine nel romanzo Le illusioni perdute, da cui è tratta la sferzante citazione precedente. E, del resto, così è stato sempre visto nell’immaginario collettivo rappresentato da romanzi e film. «Domani sarà un vecchio pezzo di carta e servirà per avvolgere le patate», dice Kirk Douglas in L’asso nella manica di Billy Wilder. E lo stesso regista fa dire a Jack Lemmon nel film Prima pagina: «Il giorno dopo serve per incartare un chilo di trippa». Insomma, sui banchi dei salumieri e dei pescivendoli o in casa sotto la cassetta del gatto e la gabbia dei canarini.

Ma che cos’è un giornale al di là della sua riproducibilità tecnica, come direbbe Walter Benjamin? È il prodotto di un lavoro intellettuale collettivo, un’orchestra fatta di solisti che però funziona bene solo attraverso la partecipazione, lo scambio, la collaborazione. Lo aveva già capito il solito Balzac che, in un graffiante pamphlet scritto nel 1843 su I giornalisti spiegava: «Un giornale, per avere una lunga esistenza, deve essere un gruppo di uomini di talento, deve fare scuola. Poveri quei giornali che contano su un solo talento!».

Anche quelli che sono considerati i primissimi giornali, gli Acta diurna istituiti da Giulio Cesare nel 59 avanti Cristo, affissi nei luoghi più frequentati per dare comunicazioni di vario tipo ai cittadini di Roma, furono scritti da una moltitudine di anonimi proto-giornalisti: i notarii (stenografi), gli actuarii (cronisti) e i subrostrani (che potremmo tradurre con segugi, reporter che passavano le loro giornate sotto i rostri del Foro – da qui il nome – dove si svolgeva la vita politica e sociale romana e dove si potevano raccogliere notizie e indiscrezioni per costruire piccoli e grandi scoop).

Le prime gazzette appaiono nel Cinquecento e spesso sono avvisi pubblici ancora scritti a mano, sebbene Gutemberg abbia già dato il proprio apporto all’umanità. Nel Seicento appaiono i primi veri giornali a stampa. La primogenitura è attribuita, nella storia del giornalismo, al settimanale edito nel 1609 ad Augusta Avisa Relation oder Zeitung. In Italia, una delle più antiche gazzette è considerata Bologna, stampata a partire dal 1643 nella città felsinea, insieme ad altre senza nome edite negli stessi anni a Venezia, Firenze e Roma. Il primo quotidiano italiano, e il più longevo, è La Gazzetta di Mantova apparsa nel 1664, che all’inizio però non usciva tutti i giorni. La grande diffusione dei giornali, come mezzi di trasmissione d’idee oltre che di notizie, si ebbe durante il Risorgimento. Da qui parte la storia dei giornali italiani, lunga e a tratti esaltante, oggi purtroppo paurosamente discendente. Una storia che trovate ben sintetizzata alla voce giornale dell’Enciclopedia Treccani. Qui ci limiteremo a ricordare il periodo più buio per i nostri giornali, gli anni del fascismo quando venne abolita la libertà di stampa e, tuttavia, decine di uomini e di donne si adoperarono per realizzare, stampare e diffondere i fogli di stampa clandestina, a volte rimettendoci la vita.

Il giornale e, in generale, la stampa sono regolati da leggi dello Stato e tutelati dall’articolo 21 della Costituzione.

Ritorniamo, infine, alla domanda: che cos’è un giornale? Una risposta ce la fornisce Gramsci, nel libro appena edito proprio da TESSERE Il giornalismo, il giornalista, curato da Gian Luca Corradi, con prefazione di Luciano Canfora e postfazione di Giorgio Frasca Polara. Nella visione gramsciana il giornale deve essere soprattutto uno stimolo per i lettori: «Una rivista, come un giornale, come un libro, come qualsiasi altro modo di espressione didattica che sia predisposto avendo di mira una determinata media di lettori, ascoltatori, ecc., di pubblico, non può accontentare tutti nella stessa misura, essere ugualmente utile a tutti, ecc.: l’importante è che sia uno stimolo per tutti, poiché nessuna pubblicazione può sostituire il cervello pensante o determinare ex novo interessi intellettuali e scientifici dove esiste solo interesse per le chiacchiere da caffè o si pensa che si vive per divertirsi e passarsela buona».

Come dargli torto.

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