LA PAROLA

Radical-chic

«Chi, per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». È questa la definizione che il dizionario Treccani dà della locuzione “radical-chic”, precisando anche che si tratta di un’espressione che mette insieme l’aggettivo inglese “radical”, radicale appunto, e quello francese “chic”, ovvero elegante. Una locuzione che negli ultimi anni viene usata come aggettivo e che ha un valore altamente dispregiativo: è radical-chic quella borghesia simpatizzante a sinistra, che professa ideali e comportamenti in teoria opposti a quelli che ci si aspetterebbe dagli appartenenti a quel ceto.

Un’espressione molto usata soprattutto sui social dove la parola viene spesso preceduta dal cancelletto, secondo il linguaggio di Twitter, ed è utilizzata principalmente da una parte politica per offendere e denigrare l’altra parte. In effetti, di questi tempi, essere definiti radical-chic oltre all’accezione che abbiamo appena descritto, assume anche il significato di “buonista”, non amante del proprio paese e, in alcuni casi, molto più semplicemente, diventa un sinonimo di cretino.
C’è da sperare, dunque, di non essere definiti radical-chic, soprattutto nelle conversazioni virtuali.

Quello che gli appassionati del #radicalchic non sanno è che questa definizione arriva da molto lontano, può vantare quasi cinquant’anni di vita, ed è stata coniata dal giornalista e scrittore statunitense Tom Wolfe, in un articolo di 29 pagine, pubblicato dal “New York Magazine”, diventato poi un saggio con lo stesso titolo (in Italia si chiama Radical chic. Il fascino irresistibile dei rivoluzionari da salotto, Castelvecchi editore). Nel suo commento, Wolfe critica l’atteggiamento della borghesia dell’Upper East Side di Manhattan che, dall’alto della propria posizione di privilegio, si spendeva per cause molto lontane dalla quotidianità. A ispirare Wolfe fu la cena di raccolta fondi che la signora Bernstein, moglie del celebre compositore Leonard, organizzò a favore delle Pantere nere, gruppo rivoluzionario marxista, i cui rappresentanti in quel periodo erano corteggiati dai migliori salotti della Grande Mela.

In Italia la locuzione fu importata da Indro Montanelli due anni dopo, nel 1972, in un articolo dal titolo Lettera a Camilla: nel testo indicava la collega giornalista Camilla Cederna come una dei rappresentanti del «magma radical-chic», ovvero della borghesia ricca e pseudo intellettuale lombarda.

Da quel momento la vita della locuzione “radical-chic” è cambiata parecchio: se prima era appannaggio di perspicaci osservatori della società, che dalle colonne dei loro giornali e con l’acume delle loro penne usavano il termine per provocare una reazione nei loro interlocutori – Montanelli, in particolare, scrivendo alla Cederna voleva avviare un confronto con il suo editore Giulia Maria Crespi, allora proprietaria del Corriere della Sera -, stimolare un dibattito, anche dileggiare, certo, ma con l’obiettivo di incidere sulla società, adesso, complice forse l’impoverimento e l’imbarbarimento del linguaggio, è diventata una banalissima offesa.

E se la perdita delle sfaccettature e il cristallizzarsi nei significati più miseri e semplicistici è il destino che spetta a parole ed espressioni con questi natali, ben vengano i radical-chic: magari nel loro magma pseudo intellettuale e borghese riescono a coniare qualche altro termine, adatto a farsi piegare, strumentalizzare e impoverire, meglio se dietro a un hashtag.

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