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L’abisso delle coscienze nei libri della Shoah

Con questo articolo inizia la sua collaborazione a TESSERE un altro bravissimo giornalista anche lui formatosi alla scuola de “l’Unità”. È Giuseppe Ceretti, per tutti Beppe, ora attivissimo negli hospice della fondazione Vidas fondata dalla moglie di Claudio Abbado, Giovanna Cavazzoni.

Presto non resterà altro che la parola scritta a raccontarci della lunga notte della ragione. «Noi non c’eravamo», che altro potremo dire quando l’ultimo dei “salvati” tornerà a fare compagnia ai milioni di “sommersi”?

Il grande libro dell’Olocausto esiste, non nei pur pregevoli compendi che recano tale titolo. È un immenso tomo composto da testimonianze, diari, saggi d’inquadramento storico, opere di speculazione filosofica. Milioni di pagine, rese di agevole consultazione dal formidabile viatico di Internet, sono a nostra disposizione. Il primo dei problemi odierni non è tuttavia, come spesso accade, chiedersi che cosa leggere per capire, ma se leggere o lasciare che l’immenso tomo giaccia relegato sui fondali del mare web.

Il genocidio ebraico sta infatti entrando in una nuova dimensione che ci vede, proprio qui e proprio ora, più che mai coinvolti in prima persona. Il rito affabulatorio che ha accompagnato il tempo della memoria, la visione collettiva di un abisso di orrore che sembrava appartenesse ad altri, perché raccontato da altri, sta per compiersi. Per taluni è già compiuto. Proprio di questi temi si occupa uno stimolante saggio di qualche tempo fa di David Bidussa, Dopo l’ultimo testimone, che si sofferma sulle nuove prospettive legate agli interrogativi di sempre dell’Olocausto, la centralità delle vittime e il diritto alla giustizia, la macchina distruttiva del potere.

«E adesso pover’uomo?» L’interrogativo posto dallo splendido libro di Hans Fallada, uscito nel 1932 – e che conteneva già, per chi avesse occhi per leggere, tutto quanto di inenarrabile accadde negli anni successivi – si ripropone ora, quasi ottant’anni dopo, in un mondo dove in apparenza tutto è mutato.

Finiti i tempi delle celebrazioni, delle cerimonie consolatorie, dell’indignazione collettiva dopo gli anni dell’oblio, restiamo noi tutti, uno per uno, di fronte alla coscienza del genocidio, a chiederci: «Potrà riaccadere in futuro? Saremo noi, potremo essere noi i volonterosi carnefici di un futuro Olocausto?»

Ci domandiamo dunque se la lunga stagione delle testimonianze abbia lasciato in noi tracce sensibili e durature, tali da percepire il baratro prima che esso di nuovo si presenti in mutate forme.

La risposta non c’è e non esistono antidoti al sonno della coscienza collettiva se non tenere desto il senso della responsabilità individuale. In ciascuno di noi si cela il contabile Johannes Pinnenberg di Fallada, una vita onesta e laboriosa finché la crisi economica lo investe come una tempesta e lo conduce alla perdita della propria dignità, barricato con la moglie in casa, chiuso a contare i pochi soldi e i magri affari. Il piccolo uomo (Kleiner Mann è il significativo titolo originale) preferisce abitare nella zona grigia di chi non prende parte, un territorio di apparente neutralità che rivendica con orgoglio.

Torna alla mente un’altra zona grigia, quella abitata dagli schiavi privilegiati nei campi di concentramento, narrata da Primo Levi, e di quanti volsero lo sguardo altrove. «Io non c’entro, non è affar mio»: così ci trasformiamo, senza capire, in tanti ciechi replicanti di gesti in apparenza innocui, ma che sono alla radice della formazione del consenso di massa.

Leggere dunque l’Olocausto non è facile, perché capire non è facile, perché siamo tutti coinvolti e non lo sappiamo. Siamo dovuti entrare nel ventunesimo secolo per comprendere quanto fosse importante segnare una data, il Giorno della memoria, per consegnare un simbolo alle generazioni che verranno.

Esse si troveranno dinanzi ad un’immensa produzione letteraria, a dolenti testimonianze, si porranno gli stessi interrogativi che prima di loro si sono posti semplici normali cittadini trasformati dalla sorte matrigna in narratori, intellettuali e filosofi che anche per esperienza diretta si sono cimentati con l’analisi dell’inferno.

Dolorosi tracciati speculativi, spesso conclusi con urla disperate di fronte al Male fatto Uomo: «Nulla sembra essere di qualche utilità per comprendere l’evento Auschwitz”, afferma Hans Jonas. «Qualcosa di tragicamente congelato nell’incomprensibile», specifica Jean Amery, ma anche con moniti a non arrendersi: «Il male non è qualcosa di radicale, ma un fenomeno di superficie a cui l’uomo può resistere solo attraverso la profondità dell’esercizio del pensiero e della capacità di giudizio», puntualizza Hanna Arendt.

Pensare al male significa interrogarsi sul silenzio di Dio. Di qui le riflessioni amare e gli interrogativi che hanno scosso le coscienze dei credenti: come ha potuto Dio permettere tanto male?

Ecco allora Elie Wiesel: «Di fronte al male è pur sempre quel Dio di bellezza, amore e potenza a venir chiamato in giudizio». Gli fa eco Etty Hillesmann: «Dio è buono e impotente di fronte al Male e perciò è più che mai bisognoso dell’aiuto dell’uomo». Aggiunge Simone Weil: «La contaminazione di Dio nasce dall’atto creativo con il quale egli si spoglia della natura divina».

Le generazioni che seguiranno si troveranno dunque di fronte al bisogno di raccontare dei loro progenitori. Sapranno farlo proprio? Vorranno dar retta all’imperativo categorico che mosse le coscienze di Amery e di Primo Levi: rompere non già il silenzio divino, ma quello degli uomini? Riusciranno a comprendere l’angoscia della distruzione delle prove che attanagliò i reduci dai campi, già pervasi dal senso di colpa del sopravvissuto?

Se una risposta non è possibile, legittima è la speranza. Finché un solo uomo pensa, legge o s’informa, la rimozione è bandita. Perché la storia dell’Olocausto altri non è che la nostra storia e racconta tutto di noi, dalla forza che mai immaginiamo di possedere giù fino agli abissi della miseria morale, al silenzio anche quando si sa che fa male, all’indifferenza che ci porta a negare l’evidenza.

 

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