ATTUALITÀ IL PERSONAGGIO STORIE

L’eredità di Pio La Torre

Il 13 settembre del 1982, poco più di due anni dopo la presentazione del progetto, il Parlamento approvava in via definitiva la legge 646, "Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia", fortemente voluta da Pio La Torre. Un uomo che aveva dedicato tutta la vita alla giustizia e alla lotta alla mafia e che con la sua stessa vita ne pagò lo scotto. Fu assassinato dai sicari di Cosa nostra il 30 aprile 1982
Foto: Il Messaggero

Chi ricorda l’origine del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso? È nato esattamente 37 anni or sono, proprio di questi giorni, grazie alla testarda iniziativa di un instancabile dirigente comunista, Pio La Torre; e la mafia si vendicò preventivamente, trucidandolo in un agguato (di cui fu vittima anche il suo stretto collaboratore Rosario Di Salvo) il 30 aprile 1982, prima ancora che la legge istitutiva di questo e altri reati fosse definitivamente approvata. È vero che solo in seguito a quel gravissimo delitto, e per giunta all’indomani di un altro assassinio eccellente (quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa appena nominato prefetto di Palermo), l’esame della legge La Torre subì un’accelerazione notevole. Ma che le nuove “Norme di prevenzione e di repressione del fenomeno della mafia” dovessero essere in ogni caso varate è testimoniato anche dal forte sostegno che alla legge aveva dato il ministro dell’Interno del momento, Virgilio Rognoni.

E così il 13 settembre del 1982, poco più di due anni dopo la presentazione del progetto, il Parlamento approvava in via definitiva la legge 646 – con cui il nome di La Torre è appunto legato a quello di Rognoni – che provocherà una svolta importante nella vita sociale e nelle procedure giudiziarie del Paese. Non solo per l’invenzione giuridica del reato di associazione mafiosa concretizzato in un nuovo articolo, il 416bis, del codice penale, che opera la necessaria distinzione dalla “semplice” associazione a delinquere e la punisce assai più severamente. Quest’articolo, steso materialmente da Pio, valorizzava le intuizioni della Commissione antimafia cui lo stesso dirigente comunista aveva dato nuovo, eccezionale impulso, e dava alla lotta antimafia uno strumento assai incisivo come si è successivamente visto.

Ma, grazie sempre alla legge, fu attribuito agli inquirenti (polizie, finanza, magistrature) l’inedito potere di svolgere accertamenti patrimoniali e tributari mirati, vale a dire di colpire Cosa nostra nei suoi vitali interessi economici e nelle sue collusioni bancarie. Ma non basta: la legge prevedeva regole assai severe per l’assegnazione degli appalti e il divieto dei subappalti per le opere pubbliche e consentiva (così anche oggi), il sequestro dei beni illegalmente acquisiti (il primo sequestro riguardò la villa del boss Salvatore Riina a Corleone: oggi è una scuola. E Totò Riina sarà alla fine condannato all’ergastolo e al 416bis proprio per l’assassinio di Pio La Torre e, insieme ai suoi compari Michele Greco, Bernardo Provenzano, Brusca, Pippo Calò, Madonia e Geraci.)

Non tutto l’iter della proposta fu semplice e anzi, prima di giungere alla presentazione del suo progetto, Pio La Torre sondò gli orientamenti della Camera attraverso il voto di una mozione presentata da tutti i gruppi della sinistra che impegnava tra l’altro il governo ad adottare tutte le misure «atte a impedire le connivenze, le debolezze e l’inefficienza all’interno dei poteri pubblici nei confronti delle attività mafiose». E mentre il governo si rimetteva all’assemblea non assumendo una chiara posizione di consenso, la mozione veniva approvata seppur di misura, tra qualche dissenso nel centrosinistra. Si trattò di un successo politico ottenuto per la costanza e l’impegno di La Torre. E infatti, dopo questo risultato Pio presentò la sua proposta. Ma la mafia non gli diede il tempo di illustrarla in aula.
L’assassinio di Pio siglava drammaticamente la vita di un uomo coraggioso, ideatore, animatore e macinatore instancabile di iniziative e di lotte sin dagli Anni Cinquanta quando, poco più che ventenne, si mise alla testa, nell’entroterra palermitano, di una manifestazione di braccianti «per la terra a chi la lavora» e fu imprigionato: una montatura infame che lo tenne in carcere per un anno e mezzo sino alla inevitabile assoluzione. Quando fu a lungo alla testa della battaglia, apparentemente solo locale, per combattere il potente gruppo di potere (Gioia, Lima, Ciancimino) che aveva consegnato Palermo alla mafia dell’edilizia. Quando divenne segretario regionale del Pci.
E non esitò, dopo una importante esperienza a Botteghe Oscure (fu responsabile prima della commissione agraria e poi di quella meridionale), a tornare nella sua Sicilia e riassumere l’incarico, già rivestito anni prima, della guida del partito siciliano nella fondatissima preoccupazione della necessità di dare nuovo impulso al movimento democratico e autonomista (e di come e quanto degradato sia lo strumento della speciale autonomia conquistata nel ’47 testimoniano tante vicende di ieri e di oggi.) Né si tirò indietro quando si trattò di animare la (infine vittoriosa) battaglia contro l’istallazione dei missili Usa nella base militare di Comiso, poi tornata ad essere un aeroporto civile che – significativamente – è stato intestato al suo nome.

È insomma impressionante la mole di lavoro che Pio seppe accollarsi in una vita relativamente breve. Confesso di aver seguito personalmente, direttamente, parecchie delle sue esperienze, e dall’inizio, quand’ero il ragazzo di bottega dell’Unità-Sicilia, sin quasi alla fine improvvisa e drammatica, quand’era esponente di punta del gruppo comunista alla Camera e fremeva – letteralmente fremeva – per quella sua legge e, insieme, per tornare in Sicilia dove lo aspettavano nuove lotte e nuovi sacrifici, sino a quello della vita. Povero, grande Pio, il cui ricordo sta impallidendo in questo mondo ora così lontano dalle sue speranze, dalle sue ambizioni, dal suo osare continuamente il superamento del muro di ogni meta realistica. No, lui andava sempre oltre. Sino a quando raffiche di mitra e colpi di pistola non l’hanno massacrato. Ma aveva vinto, anche da vittima della criminalità politico-mafiosa.