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Lia Finzi, la memoria non ha una sola strada

Lia Finzi ha novant’anni compiuti. Lucida e diritta, di fronte all’uditorio dell’Istituto veneziano per la storia della Resistenza  e della società contemporanea  – riunito per la presentazione della sua autobiografia Dal buio alla luce, e altre storie, (CIERRE edizioni, 2018) – parla senza giri di parole: «Chiamiamole con il loro nome: quelle del 1938 non furono “leggi razziali”, ma banalmente “leggi razziste”. Il fatto che vi siano molti, troppi punti di contatto con il presente, non fa che preoccuparmi». Lei ha fatto della memoria, della testimonianza  «uno strumento attivo», senza mai scivolare nella retorica, come ha ricordato Marco Borghi, Direttore dell’Iveser. «Il suo è il percorso di una resiliente», ha aggiunto la storica Maria Teresa Sega che ha curato il volume.

Elionella Finzi, Lia per gli amici, ha attraversato buona parte del Novecento vivendone fino in fondo la tragedia, poi la rinascita, le battaglie per i diritti civili, la “bella politica” come lei stessa tende a ribadire, poi la crisi ideologica della sinistra e la fine del Partito Comunista Italiano. Il libro è interessante, con quella prosa semplice, ma venata d’ironia, che consente di affrontare ogni argomento senza drammatizzarlo, ma che rivela la voglia di ricominciare, di agire con maggiore determinazione. È commovente per questo, il racconto di Lia, per la sua verità: «Ci sono vari modi di ricordare. Oltre alla memoria dei testimoni diretti, ormai quasi tutti scomparsi, e al lavoro degli storici, si può dire, narrare. Come il silenzio è percorso da vie diverse, indifferenza, odio, superficialità, settarismo, razzismo, così la memoria non ha una sola strada», scrive.

Lia Finzi, veneziana, ha dieci anni nel 1938: cacciata dalla scuola pubblica, diventa improvvisamente per le sue compagne “una sporca ebrea”. Di famiglia poco osservante, inizia a frequentare l’unica scuola consentita dalle leggi razziali, quella ebraica. «Dovetti imparare ad andare ogni mattina e ogni pomeriggio da sola, andata e ritorno, fino al Ghetto, dove frequentai la quinta elementare mista. La nostra era una classe numerosa, una trentina di elementi, proprio perché frequentata da bambini ebrei di tutta la città. In sette – prosegue – ci preparammo per l’esame di ammissione alla prima media, alla Scuola organizzata dalla Comunità, situata al Ponte Storto, in calle del Remedio, tra Ruga Giuffa e San Filippo e Giacomo». Il padre, che rimase sempre antifascista anche negli anni in cui molti ebrei – prima del 1938 – aderirono al fascismo, aveva sempre pensato che le due figlie (Lia e la sorella Alba) avrebbero potuto, una volta cresciute, scegliere di aderire o no alla frequentazione religiosa. «Ci pensò il regime fascista – commenta Lia –ad obbligarci ad essere ebree, senza aspettare la nostra maggiore età».

La scuola ebraica

Eppure, Lia Finzi, a ripensarci oggi, trova ancora che quell’esperienza le fu più utile del previsto: «Devo dire che seguire la cultura ebraica mi è stato d’aiuto nella vita per affinare la mia capacità critica, la sensibilità e, perché no, il mio umorismo nel valutare le situazioni, cosa che non guasta affatto». Il 14 novembre 1943 il Partito fascista repubblichino dichiara che «gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri e … di nazionalità nemica». Il primo dicembre giunge alle Prefetture l’ordine del Ministro dell’Interno di arrestare tutti gli ebrei e rinchiuderli in campi di concentramento. È il momento della fuga: Lia e la sorella Alba, di qualche anno più grande, partono con il padre per raggiungere il confine svizzero, mentre la madre (non ebrea e malata) rimane a Venezia e morirà poche settimane dopo. Proprio mentre a Venezia avviene il primo rastrellamento degli ebrei (nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 1943), la famiglia Finzi raggiunge la Svizzera e Lia diventa una minore rifugiata.

Il racconto prende gli accenti, avventurosi e tragici insieme, del caso: contrabbandieri di uomini, attraversamenti notturni tra i boschi, inseguimenti: «Il bosco di acacie spinose, che mi graffiavano le mani e mi strappavano il cappotto, era folto e scosceso – narra Lia – ma correvo, correvo dietro a mio padre che, ancora agile, era sempre vicino a noi, incitandoci. Si sentiva in lontananza il latrare dei cani. Noi, bagnati e sudati, salivamo uniti; dietro seguivano, ansimando, gli altri. Arrivammo alla rete. Non era già stata tagliata, come ci avevano assicurato i nostri intermediari …». Eppure i Finzi, nonostante l’accoglienza, da principio dura e inospitale, degli Svizzeri, ebbero fortuna; ospitati in campi d’internamento come rifugiati, riuscirono a farcela: «Si seppe soltanto al ritorno – commenta – quanti ebrei, che non riuscirono ad espatriare o cacciati dalla Svizzera, vennero presi dai nazifascisti nella parte italiana e poi deportati ad Auschwitz. Un nome fra tutti, Liliana Segre».

L’autobiografia di Lia Finzi riserva un capitolo di particolare interesse alla vita dei rifugiati: «Devo dire – commenta – che, leggendo le testimonianze, ci si rende conto come ognuno abbia vissuto quei mesi in Svizzera in modo diverso e con pensieri opposti. Così come erano diversi i campi di “smistamento” dove ci mandarono (dapprima famiglie intere, poi divisi), in posti lontani, nei diversi Cantoni». Da piccole realtà di montagna, poche case abitate da pastori, a Montreux vicino a Losanna, sistemati in un grande albergo, il “Belmont”, dove trovarono asilo rifugiati di diciassette nazionalità, compreso un indiano; è qui che Lia impara a cantare Bandiera rossa: gliela insegnano due fratelli maquisards, partigiani francesi, Bernard e Maurice, che vogliono rientrare al più presto in patria per riprendere la Resistenza. Al momento del ritorno in Italia, è già quasi l’agosto del 1945, Lia Finzi ha anche avuto l’opportunità di studiare lingue (francese, tedesco e inglese) in un istituto svizzero nei pressi di Lugano: «Non era una scuola con un programma simile a quello italiano – spiega – ma un istituto dove le ragazze dei Cantoni di lingua tedesca e francese venivano a imparare l’italiano, oltre alle materie commerciali. La direzione aveva selezionato una decina di noi per aiutare le svizzere nell’apprendimento della lingua, e ci dovevamo anche prendere cura di un gruppo di bambini, anch’essi in fuga».

Poi il ritorno a Venezia, dopo un viaggio faticoso. «Lentamente, la vita riprese, ognuno cercò e trovò delle ancore di salvataggio: – scrive Lia – lo studio, il lavoro dei genitori, la Comunità che doveva farsi carico dei problemi degli ebrei residenti o in transito, soprattutto di quelli che tornavano, pochi, dai campi di sterminio e di coloro che volevano imbarcarsi per tentare di arrivare in Palestina». Diplomatasi maestra, poi con una specializzazione alla Scuola ortofrenica presso la Facoltà di Pedagogia di Firenze, Lia Finzi sceglie di aderire alla Federazione Giovanile Comunista, dopo alcune esperienze nell’associazionismo ebraico. Per due anni insegna alla Scuola ebraica, riaperta in Ghetto nello stesso 1945, poi nella Scuola pubblica, dedicandosi contemporaneamente agli orfani dei partigiani del Convitto Biancotto. Aperto fin dal 1947 dall’Anpi di Venezia, e intitolato al giovane partigiano sandonatese Francesco Biancotto, fucilato nel luglio del 1944, il Convitto faceva parte di una vasta rete di Convitti della Rinascita, aperti in diverse città. La sede veneziana si trovava in fondamenta dei Cereri, nell’ex sede della Gil, diventata Gioventù italiana: «Il Convitto veneziano – racconta Lia – si caratterizzò per l’accoglienza di bambini e ragazzi tra i sei e i diciotto anni, orfani e figli di partigiani, deportati, caduti sul lavoro o licenziati per motivi sindacali. Il pomeriggio, oltre al doposcuola, si svolgevano varie attività di gruppo (sport, teatro, giornalino, laboratorio di falegnameria), aperte anche ai ragazzi del quartiere».

con Momi in viaggio di nozze

Nel progetto dei Convitti, accanto all’istruzione e alla qualificazione professionale per tutti, l’idea importante era quella di sviluppare una palestra di democrazia, un modo di diventare cittadini in una dimensione collettiva. «Non fu volontariato, per noi della cellula Fgci degli universitari, fu militanza politica. – chiarisce Lia – Al Biancotto abbiamo introdotto esperienze educative che anticipavano di dieci anni quelle di don Milani. Tutti i ragazzi erano mandati alla Scuola pubblica; nel consiglio di amministrazione del Convitto sedevano gli operai dei Consigli di Fabbrica di Marghera e dell’Arsenale, i portuali, gli intellettuali vicini alla nostra concezione. I lavoratori della Vetrocoke davano dieci chili di carbone a testa, così ci scaldavamo tutto l’inverno. I lavoratori dell’Italsider e della Breda lasciavano ai ragazzi il pasto del sabato. Dai braccianti del ferrarese, a Natale, avevamo tanti bisati (anguille) da Comacchio – ricorda – e gli ortofrutticoli del mercato di Rialto, a mezzogiorno, ci davano l’invenduto. Tutta la città era solidale». Con Lia, a condividere vita e passione politica, c’è già da allora Girolamo Federici, detto “Momi”, ex partigiano, direttore didattico del Biancotto, sempre appartenente alla cellula veneziana Fgci degli universitari. Momi – dopo l’esperienza del Biancotto durata circa un decennio – continuerà la sua attività didattico-pedagogica nella Scuola pubblica, nell’Associazione Pionieri d’Italia (fondata da Gianni Rodari), collaborando al Movimento di Cooperazione educativa.

Dalla metà degli anni Sessanta, il Partito Comunista Italiano impegna Federici nei suoi organismi dirigenti: responsabile della cultura, segretario comunale e consigliere in Comune a Venezia e – nel decennio successivo – prima deputato e poi senatore, fino alla Presidenza regionale della Lega delle Cooperative nel Veneto. Sua, nell’ambito dell’attività da parlamentare, l’importante Indagine Conoscitiva sui Porti Italiani, un lavoro fondamentale per la regolamentazione delle dinamiche economiche, sociali e politiche del settore portuale. «Mi sono sposata con Momi il 23 dicembre 1954, – Lia sorride –  mia suocera Costanza non venne al matrimonio con la scusa che non poteva chiudere il negozio di merceria che avevano a Roverchiara, a dieci chilometri da Legnago, ma in realtà era perché non capiva in quale chiesa ci saremmo sposati. Il padre Piero, più preparato, le disse che non ci saremmo sposati in nessuna chiesa, bensì in Municipio … e nonna Costanza rimase con la sua confusione».

Lia e Momi avranno due figli, Pierangelo e Davide. «Eravamo contro, sempre, a tutte le ingiustizie. –  racconta – Manifestavamo contro l’aumento delle tasse universitarie, contro l’America per la liberazione dei Rosemberg, accusati di tradimento, contro la guerra in Vietnam. Momi, in una di queste occasioni, fu fermato e percosso: tutta Ca’ Foscari si mobilitò per liberarlo». Nel 1989, quando Occhetto deciderà di fondare un nuovo Partito, proposto dalla sua mozione al Congresso, la “numero uno”, i Federici voteranno per la “mozione due”, quella d’Ingrao: «Abbiamo vissuto insieme tutto: – commenta Lia – la gioia di avere un leader come Enrico Berlinguer, che ebbe il coraggio di staccarsi dall’URSS, e poi il dolore per la sua morte, fino allo smarrimento di vedere la sparizione del Partito che tanto aveva significato per noi, dalla Resistenza in poi. Certo – la visione di Lia Finzi è nitida – a quel tempo era più facile sapere da che parte stare, ma rimanemmo scossi nel vedere, dico vedere perché non ci iscrivemmo più a nessun partito dal 1992, attraversare con nomi diversi, e con scelte sempre più atlantiste e liberiste, tutti gli anni successivi della sinistra».

Nel periodo triste della crisi e della fine del PCI, Lia non ha mai rinunciato all’impegno, agendo nell’associazionismo femminile, nell’Anpi, in rEsistenze, nel sindacato pensionati: instancabile militante della memoria che ha spiegato a generazioni di bambini e ragazzi cosa siano fascismo e razzismo. Tuttavia, sono gli anni d’oro dell’impegno politico – dal 1960 quando, unica donna, è eletta nel Consiglio provinciale, al decennio 1975-1985, quando opera nella Giunta rossa a Venezia in qualità di assessora alla Sicurezza Sociale – a rappresentare per la città lagunare un’autentica rivoluzione. Dopo l’esperienza del Biancotto, Lia Finzi insegna per lunghi periodi nelle cosiddette “Scuole speciali” (che dipendevano, come i manicomi, dall’Amministrazione provinciale). Conosce realtà di esclusione, di mancanza di mezzi e competenze. «Cominciai così – scrive – la mia lotta sindacale contro le Scuole speciali, affinché non ci fossero più discriminazioni, e per l’inserimento dei bambini con difficoltà d’apprendimento nella scuola di tutti, la Scuola pubblica, con un dovuto sostegno». Altrettanto, Lia si batte contro le scuole degli “irrecuperabili”, emarginazione nell’emarginazione, i bambini affetti da sindrome di Down.

«Rimasi in Consiglio provinciale fino al 1975, mi occupavo principalmente di ospedali psichiatrici e, appunto, di scuole speciali. – racconta –  La prima volta che andai con la Commissione a visitare le “isole dei matti”, San Servolo e San Clemente, capii la validità delle tesi sostenute da Franco Basaglia … operammo per coinvolgere gli operatori e la popolazione, per sostenere la necessità della chiusura dei manicomi e per aprire i servizi alternativi necessari, così com’era avvenuto a Trieste». Altrettanto fondante l’esperienza di Lia Finzi al Comune di Venezia: «Fu un’avventura – ricorda – far entrare nel bilancio comunale tutte le esigenze della popolazione che era stata abbandonata, o quasi dalle amministrazioni precedenti … Se penso come si è proceduto per mettere in piedi i Consultori familiari in base alla Legge 194, riconosco tutto il nostro impegno nel coinvolgere gli operatori sociosanitari, per formare équipe qualificate». Dare il via alla Riforma Sanitaria, nel 1979, costituì per Finzi e la Giunta un lavoro gravoso ed impegnativo; si passava dal vecchio “ospedalecentrismo”  alla continuità terapeutica: prevenzione, cura riabilitazione. Nel 1980, anche con l’apporto di Palma Gasparrini, assessora alla Condizione femminile, si apre a Mestre – primo in Italia – il Centro Donna. In quegli anni, Lia  concepisce servizi alla persona che funzionano; il suo agire risponde ai bisogni e ai diritti dei lavoratori, delle donne, dei bambini, dei malati e di tutti coloro che vivono il disagio. «Un giorno venne da me una delegazione degli operatori del carcere femminile della Giudecca, accompagnata dallo psichiatra che seguiva il servizio – racconta nel suo libro – e mi posero le esigenze dei bimbi delle detenute che vivevano in carcere con le madri. Subito me ne feci carico e trovai il modo di far frequentare ai piccoli l’asilo-nido “Il Gabbiano” della Giudecca, accompagnati dalle operatrici dell’assistenza domiciliare».

Ancor oggi, a novant’anni, la Presidente onoraria dell’Iveser interpreta la democrazia come ascolto di ogni voce, disponibilità a dare tempo e presenza. «Piena degli altri», così l’ha definita Gianluigi Placella, Presidente della Sezione Anpi 7 Martiri di Venezia. «Dove potrò andare, se ritorna il fascismo?» si è chiesta più volte Lia Finzi, nel corso della sua lunga vita. Che poi significa: dove andremo tutti? Eppure, dice un racconto della tradizione chassidica, finché esiste un fuoco nel bosco, finché intorno a quel fuoco c’è qualcuno che racconta, allora si potrà continuare a vivere. «Concludo col dire che l’andare, alla mia età, nelle scuole a parlare con i ragazzi  della mia storia e delle mie esperienze, – confida Lia –  in particolare della Costituzione nata dalla Resistenza, è l’attività che conduco con maggior soddisfazione. Trovo i giovani positivi, interessati, attenti. Questo fa ben sperare per il futuro e riaccendere le passioni quasi spente». Con lei, ci sono ancora il bosco, il fuoco e qualcuno che racconta, e ricorda.