RACCONTI ZIBALDONE

Liborio e la profezia di Marietta

Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo il primo capitolo del romanzo di Giovanna Nobile Paziente Ballata per Josy (ISBN 978-2-37864-006-4) appena uscito presso Portaparole.

GIOVANNA NOBILE PAZIENTE

Giovanna Nobile Paziente Ballata per Josy1

Il ticchettio cadenzato del pendolo nel silenzio del tramonto sembrava contasse gli sbavi di luce che a poco a poco si spegnevano, s’incenerivano a strappi. Ad ogni ticchettio un secondo in meno verso il morire del giorno che allontanava da Liborio la speranza di vedere apparire Grannali. Lo sguardo fisso sul cielo del lago, l’uomo cercava ancora una volta le grandi ali dell’uccello riuscendo ad intravedere da lontano, pur nell’avanzare delle ombre, le increspature sulla superficie delle acque dell’invaso. Le immaginò bianche farfalle a seguire la corrente che lo scirocco in arrivo già spingeva verso l’interno impedendo lo sciabordio di risacca. Nitida nella mente dell’uomo l’immagine consueta del loro breve apparire in un fare e disfare come di trine sospese sulla profondità della vallata che le acque imbrigliate dello Jato, anni prima, avevano lentamente divorato. Si erano alzate implacabili a riempire quello che per Liborio era da allora invece il vuoto della sua vita. Alberi, case, trazzere che poteva rivedere soltanto nella sua mente. Che sapeva ormai persi per sempre in un verdastro sudario limaccioso.

A lasciare intuire il mondo sommerso, le due ringhiere del Ponte di Ferro sulla vecchia strada per Grisì sospese a pelo sulla superficie e la sporgenza di un rudere nel punto più profondo dell’invaso. Si levava sulle acque il picco come guglia, un puntino appena visibile solo a chi ne sapeva l’esistenza ma che disvelandosi lentamente al calar del livello del lago mostrava lo scheletro frastagliato e roso di quella che doveva essere stata una casa. A forma di teschio sovrastava le acque mostrando orbite vuote che raggi di sole a fiotti o sbavi di tramonto, attraversavano dando l’impressione che la figura vomitasse fiamme. Per Marietta un demone fuggito dall’inferno era rimasto imbrigliato dalle acque e incatenato per sua dannazione eterna.

Facendosi il segno della croce, la sorella di Liborio giurava che ogni volta che quella visione si ergeva sopra lo specchio, qualcuno sarebbe morto ammazzato di lì a poco e i latrati dei cani nella notte che si facevano più lunghi, quasi lamenti umani, infine avrebbero trafitto il buio ad annunciare che un delitto era stato consumato.

Anche se Liborio era certo che, a smentire la lugubre profezia di Marietta, l’alba dopo sarebbe sorta uguale sullo specchio d’acqua ignaro del suo prosciugarsi portatore di sventura, tuttavia durante la notte i sensi dell’uomo si acuivano fino allo spasimo e la prima luccicanza del mattino lo trovava insonne e inquieto nell’attesa inconfessata della notizia di qualche disgrazia già avvenuta. E qualsiasi tragica notizia non poteva che avere il volto del gabellotto Nenè dallo sguardo crudele e dalla bocca rapace che si contraeva appena se l’uomo provava fastidio per qualcosa. Questi era, per i due fratelli, l’unico legame con il mondo esterno a parte il ragazzo di bottega che riforniva la loro dispensa settimanalmente e, con scadenza mensile, il medico per il cuore sballato di Liborio. In queste occasioni, Nenè accompagnava gli ospiti al loro arrivo, quasi ad assicurarsi che questi non deviassero dal percorso e infine ne controllava la partenza sino a quando non vedeva la macchina o il furgone sparire oltre la curva.

La presenza del gabellotto nella vita di Liborio veniva avvertita da questi come qualcosa di appena palpabile, un’ombra quasi che però riusciva ad oscurare tutto. Anche con la sua assenza. La figura di don Nené infatti si poteva materializzare in ogni luogo o in ogni momento della giornata col lucore di una camicia che appena intravisto si perdeva già nel canneto che fiancheggiava la trazzera, o nella punta del fucile che si alzava al di sopra della vigna nel breve tratto di terreno che l’uomo attraversava prima di scomparire nei frutteti o tra gli alberi lavati dall’acquazzina nei rigori dell’inverno.

Rare le occasioni di incontro con Liborio che però erano finite del tutto quando questi, a causa dei capricci del suo cuore, si era ritirato lassù nelle stanze sopra le antiche scuderie per non discenderne più. Da quel momento nemmeno quelli.

Una presenza assenza quella di Nenè che raramente saliva ai piani alti ma che Liborio sapeva essere come il destino sulle loro vite. Niente che non fosse deciso dal gabellotto poteva accadere nelle loro monotone e vuote esistenze e niente di manifesto ad avvalorare questa certezza che la sorella cercava di smentire ricordando a Liborio che Nenè sapeva stare « al suo posto », che non si prendeva la libertà di mettere piede a casa loro. A dimostrazione di ciò, il fatto che qualsiasi comunicazione dell’uomo arrivava a Marietta, affacciata al balcone, attraverso l’aria sospesa sulla campagna, tanto che Liborio ne percepiva appena qualche suono come gorgheggi in crescendo che poi perdevano tono divorati dall’aria. Tra le stanze abitate dai due fratelli e gli alloggi di don Nenè si era alzata sin dal loro insediarsi nella tenuta, una barriera invalicabile e tale era rimasta nel tempo. Anzi, a dire il vero, Liborio l’aveva percepita subito, come un baratro che attraversava i loro spazi a segnarne i limiti. Quei “posti”, il suo e quello del gabellotto, erano tenuti da sempre come postazione dove egli era in difesa per quella che sentiva come una presenza minacciosa che si aggirava occulta e vagante nella sua esistenza. Come trent’anni prima i lupi sugli Appalachi quando Josy gli aveva promesso che avrebbero raggiunto il mondo incantato oltre i picchi gelati e l’ululato delle bestie sembrava annunciare invece che la promessa non sarebbe stata mantenuta.

Come gli succedeva sempre, il ricordo di Josy provocò a Liborio una fitta al cuore facendogli “accelerare” i battiti e togliendogli il respiro.

Continua

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