IL PERSONAGGIO

Lirio Abbate al Festival La città dei lettori

Lirio Abbate sta per arrivare. Tarderà qualche minuto, ci dicono, questioni di sicurezza. Il giornalista Lirio Abbate viaggia con la scorta, è sotto protezione. Quando arriva, con gli occhi azzurri pulitissimi e un bel sorriso aperto, ricorda il Gran Lombardo di Vittorini in Conversazione in Sicilia: «autentico, aperto, e alto, e con gli occhi azzurri […] aveva una piccola barba pepe e sale […] ma capelluto come un uomo antico». È il 2 giugno, festa della Repubblica, e a Firenze Lirio Abbate parla al Festival della Città dei lettori sul Belvedere del giardino Bardini: «Il pericolo è il mio mestiere». Incontro sul giornalismo d’inchiesta.

Dà le spalle alla meravigliosa vista su Firenze, ed è la prima cosa su cui scherza: «ditelo che siete qui non per sentire me, ma per la vista!» e racconta, sollecitato dal giornalista Simone Innocenti ma il più delle volte surclassando le sue domande, cos’è il giornalismo d’inchiesta, come si può dare una notizia osservando quel che accade: una notizia, non una notizia di reato, che è altro, non una fake news, costruita apposta per la piccola celebrità data dai like e dalle condivisioni sui social. Se vedo il mio sindaco a cena con un malavitoso, o con un potente dal passato ambiguo, dice Abbate, faccio una foto e la pubblico con una didascalia in cui racconto chi sono le due persone immortalate assieme: non è certo un reato andare a cena con qualcuno non proprio limpido, ma lo metto in evidenza, ne do notizia. Il giornalismo di inchiesta è un servizio alla democrazia, accende i riflettori su fatti che magari non costituiscono notizie di reato, ma stanno lì a mostrare che bisogna monitorare, stare attenti. Perché la mafia non è solo coppola e Sicilia, e la procura di Palermo non è l’unica da chiamare quando se ne sente la puzza.

Al festival La città dei lettori l’ingresso è gratuito, e ti regalano un libro a scelta. Arrivo al banchino senza aspettative, e invece trovo quattro o cinque libri che prenderei al volo, ma devo sceglierne uno solo. Ne scelgo uno dal titolo profetico: Nostalgia dell’eroe, di José Ovejero. La storia mi interessa ma il titolo anticipa, senza meno.

La mafia, dice Abbate, – il suo metodo ben consolidato – arriva dove ci sono gli appalti milionari, magari per un’emergenza. Eccola lì, non parla siciliano, magari romanesco, oppure toscano, chissà. La mafia è un metodo buono per tutte le latitudini. Fa l’esempio delle gang sudamericane a Milano: finché non metti assieme gli eventi, sembrano tutti slegati, un picco di criminalità a caso; se li metti assieme, se allarghi la prospettiva, ecco la trama, il disegno, l’organizzazione. La mafia è un processo di infiltrazione nella società, nella pubblica amministrazione, nel tessuto produttivo; se anche non chiede il pizzo ti obbliga al favore, ti impone il suo passo.

In Toscana ci hanno già abituato che le cose possono restare uguali a se stesse, immutabili, a favorire nei secoli gli amici degli amici e senza bisogno di sparare oppure intimidire, solo tessendo trame fitte, avvolgenti, che coprono e levano il fiato. Non è mafia, si dice, ha un nome diverso e onorevole, si dice; leva il fiato comunque, e magari qualcuno steso a terra lo lascia lo stesso.

E proprio in Toscana latita da venticinque anni il boss trapanese Matteo Messina Denaro, una storia raccontata anche su L’Espresso in un articolo del 6 aprile 2018, nel quale Lirio Abbate scrive: «se un boss di questo calibro è ancora in fuga, la responsabilità è da cercare di sicuro in una parte della società che lo appoggia, lo favorisce e lo copre. Sarà pure una minoranza, ma di fatto prevale sulla maggioranza di persone perbene che vivono nei territori ancora “occupati” dalla mafia. Non tutto può essere delegato alla magistratura o alle forze dell’ordine. C’è un confine e ognuno deve decidere da che parte stare. Una decisione che dovrebbe essere scontata, a ventisei anni dalle stragi di Falcone e Borsellino, tuttavia nei fatti spesso si rivela difficile».

Giornalismo d’inchiesta. Quale onore sentire i motivi, le risposte di Lirio Abbate. Vedere il Gran Lombardo in persona che sorride e ti dice: «non la sentite la puzza?». Quella puzza che gli ha fatto scoperchiare mafia capitale due anni prima dell’inchiesta, attirandosi l’ira di Massimo Carminati il Fascista, il Cecato.

È commovente, pure, quando gli chiedono «ma a te, quando torni a casa da chi ami, non succede mai di sentire che è il momento di fermarsi?” e lui glissa, e racconta del 23 maggio 1992, quando arriva a Capaci da giovane cronista, il “biondino”, dopo l’attentato a Falcone. Ha un nodo alla gola, quando inizia a parlare: «ricordo il puzzo, l’odore, le sensazioni, le lacrime, le situazioni, e questo fatto mi ha cambiato, e ha cambiato il mio approccio alla professione». E poi la strage di via D’Amelio, il 17 luglio 1992. Racconta di essersi ritrovato in una sorta di imprevisto master di giornalismo, delle redazioni delle testate nazionali che si appoggiano alle redazioni dei giornali locali, dei grandi giornalisti che si trasferiscono a Palermo dopo le stragi, con i quali si trova a lavorare gomito a gomito, fanno tutto assieme, gli insegnano con l’esempio, con grande umanità, con le loro domande, come si fa quel giornalismo d’inchiesta che Abbate continua, da allora, a fare ogni giorno, quel giornalismo per il quale viaggia scortato dovunque. E poi conclude: «il sostegno familiare e degli amici mi ha portato qui, sino ad oggi». Nessun uomo è solo se ha amici.

La mafia arriva ovunque ci siano soldi da fare, ma non è detto che la si riconosca. E se la riconosce come tale chi investiga, non è detto che poi riesca a farlo chi giudica, perché la mafia è legata pure all’idea che uno se ne fa, che ha visto nei film, collocata territorialmente: siciliana, con la coppola e i morti per strada. E invece no, l’associazione di stampo mafioso è definita così dall’articolo 416 bis del codice penale: «L’associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri». Non è richiesta la coppola, e nemmeno i morti ammazzati per strada.

Prendo una copia de La lista. Il ricatto alla Repubblica di Massimo Carminati e mi avvicino. Osservo Lirio Abbate che rivolge a chiunque la massima attenzione, ascolta, risponde, nel modo più semplice e naturale possibile, perché qui star non ce ne sono. Abbasso gli occhi sulle prime pagine del libro che ho in mano e leggo: «A mio nonno Vincenzo, che è stato internato militare non collaborazionista, combattente per la Libertà d’Italia 1943 – 1945». Una buona genìa di gente antica.

Ed è come sentire di nuovo il Gran Lombardo: «Credo che l’uomo sia maturo per altro, disse, non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per essere un buon cittadino… Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri, altre cose, da compiere… Cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo».