LA PAROLA

Male

Dal vocabolario

Tutto quanto si oppone al bene, alla virtù, alla morale, all’onestà: ingiustizia, disonestà, peccato, vizio.

Ciò che è inopportuno, dannoso, svantaggioso, sbagliato: danno, svantaggio.

Dolore, sofferenza fisica.

Affezione morbosa di animali o piante.

Anche in funzione di aggettivo: non essere male cioè essere abbastanza bello; non male; niente male; mica male.

Dalla storia

Dal punto di vista metafisico e, soprattutto, per certa tradizione filosofica antica, il Male, essendo l’esatta antitesi del Bene e quindi dell’essere, si configura come una privazione di essere o, che dir si voglia, con il non-essere stesso. Il Male, non avendo di per sé consistenza autonoma, essendo privazione del Bene ed esistendo quindi solamente in virtù dell’essere e come suo esatto contrario, è un accidente della realtà.

La banalità del male

Dal punto di vista reale, il Male è legato ad un altro sostantivo: la banalità, ovvero la facilità con cui si commette: nel 1961 Hannah Arendt seguì le 120 sedute del processo Eichmann (il famigerato criminale nazista) come inviata del settimanale “New Yorker” a Gerusalemme.

Otto Adolf Eichmann (nato nel 1906), era stato responsabile della sezione IV-B-4 dell’ufficio centrale per la sicurezza del Reich, organo nato dalla fusione, voluta da Himmler, del servizio di sicurezza delle SS con la polizia di sicurezza dello stato, inclusa la polizia segreta o Gestapo. Eichmann non era mai andato oltre il grado di tenente-colonnello, ma, per l’ufficio ricoperto, aveva svolto una funzione importante, su scala europea nella politica del regime nazista: aveva coordinato l’organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di concentramento e di sterminio.

Nel maggio 1960 agenti israeliani lo catturarono in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a Gerusalemme. Processato da un tribunale israeliano, nella sua difesa tenne a precisare che, in fondo, si era occupato «soltanto di trasporti». Fu condannato a morte mediante impiccagione e la sentenza fu eseguita il 31 maggio del 1962.

Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo concludevano furono pubblicate sulla rivista e poi riunite nel 1963 nel libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme. In questo libro la Arendt analizza i modi in cui la facoltà di pensare può evitare le azioni malvagie. La banalità del male ha accentuato la relazione fra la facoltà di pensare, la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di giudizio, e le loro implicazioni morali.

La prima reazione della Arendt alla vista di Eichmann è più che sinistra. Lei sostenne che «le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, ne’ demoniaco ne’ mostruoso». Eichmann sembra essere un uomo comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la lasciarono stupita nel considerare il male commesso da lui, che consiste, nell’organizzare la deportazione di milioni di ebrei nei campi di concentramento. Ciò che la Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l’incapacità di pensare.

Eichmann ha sempre agito all’interno dei ristretti limiti permessi dalle leggi e dagli ordini. Questi atteggiamenti sono la componente fondamentale di quella che può essere vista come una cieca obbedienza. Egli non era l’unica persona che appariva normale mentre gli altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era una massa compatta di uomini perfettamente “normali” i cui atti erano mostruosi. Dietro questa “terribile normalità” della massa burocratica, che era capace di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto, la Arendt rintraccia la questione della “banalità del male”.

Questa “normalità” fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente ripudiati dalla società – in questo caso i programmi della Germania nazista – trovi luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non riflette sul contenuto delle regole ma le applica incondizionatamente. Eichmann ha introdotto il pericolo estremo della irriflessività. Ma il guaio del caso Eichmann era che di uomini come lui ce n’erano tanti e che quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali. E questa normalità è più spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica – come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro patroni – che questo nuovo tipo di criminale, realmente “hostis generis humani”, «commette i suoi crimini in circostanze che quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce male». Arendt disse: «Mi sono sentita scioccata perché tutto questo contraddice le nostre teorie di male».

Lei poi si domanda come sia possibile che poche persone non aderiscano al regime malgrado ogni coercizione. Si risponde: i non partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli unici che osano essere «giudicati da loro stessi»; e sono capaci di farlo non perché posseggano un miglior sistema di valori o perché i vecchi standard di «giusto e sbagliato» siano fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma perché essi si domandano fino a che punto essi sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni; e loro decidono che è meglio non far nulla. La Arendt chiaramente presuppone alla facoltà del pensare questo tipo di giudizio. Questa presupposizione non necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente l’abitudine di vivere insieme, e in particolare con se stessi, che significa, essere occupato in un dialogo silenzioso tra io e io, che da Socrate è stato chiamato “pensare”.

L’incapacità di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria per causare grande male. Dunque l’uso del pensiero previene il male. Una delle questioni principali della Arendt è il fatto che un’intera società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò che sta accadendo. La Arendt sceglie Socrate come suo modello di pensatore. Una maniera per prevenire il male è come detto sopra rintracciabile nel processo del pensare. Questo pensare per Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento. La capacità di pensare ha dunque la potenzialità di mettere l’uomo di fronte ad un quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa tali eventi.

La banalità del bene

La banalità del bene è invece un libro del 1991, scritto da Enrico Deaglio. Il libro narra della vita del Giusto tra le nazioni Giorgio Perlasca e del suo operato a Budapest durante la seconda guerra mondiale. Il titolo è un chiaro riferimento, ribaltato, al titolo del libro di Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme.

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