LA PAROLA

Mare

Mare è una parola talmente vasta che quasi… vien il mal di mare al solo pensarci. È un’immensa distesa che comprende tutti i bacini d’acqua salata e ricopre gran parte della superficie terrestre, circa i sette decimi di essa.

Fin dall’antichità poter solcare una massa così vasta e potente è stato un sogno, per realizzare il quale molti marinai e naviganti hanno finito per esserne sopraffatti. Altre volte, invece, il mare è stato clemente tanto da poterlo “dominare”, raggiungendo così obiettivi e scoperte fondamentali. Se non ci fossero state traversate non ci sarebbero stati molti incontri tra popoli diversi, e tante cose non le si sarebbero potute conoscere e, quindi, utilizzare.

Quando si pensa al mare alla maggior parte di noi affiorano molti ricordi di vacanze, la spiaggia, i compagni di gioco, l’estate, le ore ad spettare di aver digerito per poter fare il bagno, i castelli di sabbia ecc… Ad altri, invece, vengono purtroppo in mente immagini tristi e luttuose.

Mare è un sostantivo maschile che deriva dal latino mare e si pensa abbia due possibili diverse etimologie, poiché può derivare dalla radice mar-, che significa “morire”, o dalla radice màr- che significa “scintillante” e “brillante”, prefisso impiegato anche nella parola marmo.

Entrambe, anche se contrastanti, secondo me sono vere. Infatti esso è scenario di molte tragedie e tomba di esseri umani. Ma l’altra ipotesi, che amo pensare gli si addica di più, è quella che si riferisce alla proprietà riflessiva dell’acqua che, con l’aiuto del vento, crea bellissimi giochi sulla superficie assumendo infinite variazioni di colore.

Credo che mare si avvalga di entrambe le ipotesi poiché indica bellezza e orrore al medesimo tempo. È straordinario pensare come una tal massa d’acqua – che sarebbe ferma, immobile se non venisse sollecitata dai venti, dalle condizioni atmosferiche, dal moto della Terra e dei pianeti, dalla differenza di temperatura fra la superficie e la profondità, dalle bizze di vulcani e terremoti; e sarebbe incolore se il cielo non gli donasse il proprio blu e il Sole non lo rendesse così luccicante – possa avere contemporaneamente sfumature meravigliose e la forza di affondare navi o risucchiare interi gruppi di essere umani, di andare a prenderseli anche là dov’è terra, non è mare.

Il mare distrugge, devasta, rade al suolo, com’è avvenuto con lo tsunami del 2004 nell’Oceano indiano, il quale ha causato una quantità impressionante di morti. È, però, anche delicato e fragile, l’habitat di moltissime specie tanto animali quanto vegetali dalle forme e dai colori meravigliosi, basti pensare alla barriera corallina australiana. Può ispirare versi, come quelli di Iole Troccoli pubblicati qui il 25 luglio scorso o quadri come qualcuno di quelli di Cici Peis pubblicati qui il 5 agosto.

Fin dai tempi antichi l’emigrazione anche via mare è stata un fenomeno “naturale” e necessario. Per fenici, vichinghi, romani, greci era la quotidianità. In America gli italiani in cerca di lavoro già nella seconda metà dell’Ottocento ci arrivavano sulle navi, con pochi bagagli in mano, tanta paura e tanta speranza. Anche oggi è l’unica possibilità per chi cerca una qualche opportunità di rinascita o coltiva il desiderio di poter cambiare le proprie condizioni, e per far ciò accetta la sfida di attraversare interi mari.

Sulle coste i mari hanno fari, che indicano quali percorsi seguire e come evitare i pericoli, e porti, nei quali accogliere gli scafi che solcano le onde. Così è stato da sempre: fari e porti, navi e mari. E poi spiagge, conchiglie, pesci, un’intera umanità affacciata su di essi.

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