DAILY LA PAROLA

Marùbio

Dal dialetto della Serenissima, arriva una parola dai molti significati: "marubìo", che insospettabilmente deriva dal nome di una piccola pianta erbacea perenne, della famiglia delle Lamiacee

Vien su marùbio, si dice ormai un po’ per tutto: per l’orizzonte temporalesco che avanza dalle montagne e stringe d’assedio la laguna, quando l’aria prende il sapore del sale e le nuvole – nere e basse – si addensano senza vento. Si dice immarubià, però, anche di persona corrucciata che stia per esplodere, come ribadisce il Boerio nel suo ottocentesco DizionarioMarùbio sono le torme di turisti che calano in città dal ponte di Calatrava, che sbarcano dalle Grandi Navi – di solito il venerdì, ma oggi anche gli altri giorni – e oscurano, per tutto il fine settimana, calli e campielli. Femo marùbio, invece, ha una connotazione attiva, di protesta: ga fato marùbio la folla dei veneziani che ha manifestato contro i mostri del mare, dopo la recente collisione che poteva avere conseguenze ben più gravi. In quel caso, marùbio era sinonimo di moltitudine compatta, cosciente e battagliera.

Perturbazione atmosferica intensa o stato di tensione, moto di protesta, persino vino di bacaro aspro, amarognolo, allappante (ottimo, si dice, per far uscir di sbronza, dato l’effetto emetico): c’è tutto questo in una parola dalla derivazione insospettabile e, a dir il vero, piuttosto contorta. Sì, perché il marrùbio, da cui il gergale marùbio, non è altro che una pianta della famiglia delle Lamiacee. Una piccola pianta erbacea perenne dai fiori labiati, utile come espettorante, per favorire la sudorazione e regolare il flusso mestruale. La chiave giusta per comprendere il senso traslato sta tutta nell’asprezza del sapore, che suggerisce difficoltà e pericolo. Perché no, anche chiarezza d’intenti, dato che i masegni veneziani (il selciato in blocchi di trachite della pavimentazione) se neta col marùbio (si lavano con la tempesta).

La radice sta, una volta di più, nella multiculturalità della Serenissima: maròr, in ebraico, è l’erba amara che contraddistingue il seder, la cena pasquale in cui si ricorda l’uscita degli ebrei dall’Egitto. Di solito bieta o cicoria, a simboleggiare le amarezze della schiavitù e le peripezie della migranza. Da maròrmarùbio, il passo è logico, se si pensa a quanti termini delle Nazioni che hanno fatto grande Venezia sono passati nell’uso comune. Fino alla descrizione mirabile che ne offre Alberto D’Amico nel suo affresco universale Ariva i barbari a cavao, in cui ripercorre i secoli della gloria veneziana, dei popoli che l’hanno attraversata, o depredata, costringendo i suoi abitanti a scappare di epoca in epoca, con le poche, povere cose che una barca può contenere: «E co ‘sta barca e ‘sta laguna / tira la rede che la xe piena / fa’ pian Luisa che la se sbrega / vien su Venezia el sol la suga / ma vien marùbio e i pirati / la nostra orata i s’à robà.». Co fa marùbio – si dice – se lava i masegni e anca i servèi  (Quando fa tempesta, si lavano il selciato e le teste). Il che, una volta ogni tanto, non guasterebbe.                                                                                                                                                                                           .