LA PAROLA

Mobbing

Il primo ad usare la parola mobbing è stato l’etologo austriaco Konrad Lorenz, che la “inventò” intorno agli anni Settanta del Novecento dal gerundio del verbo inglese to mob (affollarsi intorno a qualcuno, assalire, malmenare), per descrivere il comportamento aggressivo tra individui della stessa specie con l’obiettivo di escludere un membro del gruppo. Ma il genere umano, si sa, in quanto ad aggressività gratuita, è infinitamente peggiore degli animali, tra i quali le condotte anche apparentemente inspiegabili hanno, invece, una loro logica per l’evoluzione e la conservazione della specie.

Il termine, di conseguenza, venne impiegato poco dopo dal medico svedese Paul Heinemann come sinonimo di bullismo, mentre negli anni ’80, lo psicologo svedese Heinz Leymann, definì il mobbing come la «comunicazione ostile, non etica, diretta in maniera sistematica, da parte di uno o più individui, generalmente contro un singolo individuo». Eccolo quindi nel significato attuale, come spiega anche la sua etimologia, dato che to mob deriva dall’espressione latina mobile vulgus, (gentaglia, folla disordinata dedita al vandalismo e alle sommosse).

Nella definizione del vocabolario Treccani, il mobbing è «una pratica vessatoria e persecutoria, spesso sconfinante in una forma di terrore psicologico, perpetrata dal datore di lavoro o dai colleghi (mobbers) nei confronti di un lavoratore (mobbizzato) al fine di emarginarlo o costringerlo a uscire dall’ambito lavorativo». Questo odioso comportamento si può verificare anche a scuola (dove assume il nome di bullismo), nelle forze armate (si chiama nonnismo), in famiglia. Ma il termine si riferisce in particolare al mondo del lavoro, dove viene riconosciuto come lesivo della dignità personale e professionale, della salute psicofisica della persona mobbizzata. Esempi tipici sono le vessazioni continue, la violenza psicologica, il demansionamento lavorativo, l’emarginazione, la maldicenza, le aggressioni fisiche e verbali, la colpevolizzazione. Il danno per la salute può anche essere molto molto grave, senza considerare anche quello economico e sociale, come ben sa chi è stato vittima di mobbing sul lavoro.

Ma singoli atteggiamenti molesti non necessariamente possono configurarsi come reato o essere di per sé illegittimi: in assenza di una definizione normativa, quindi, «nell’ordinamento vigente – scrive la Treccani – il fenomeno può essere inquadrato nella disposizione dell’art. 2087 del Codice civile, che impone al datore di lavoro di tutelare non solo l’integrità fisica, ma anche la personalità morale del dipendente. Inoltre, dalle pratiche di mobbing possono derivare danni che la giurisprudenza e la dottrina individuano nel danno biologico, danno morale e danno esistenziale, la cui liquidazione non può che essere effettuata in forma equitativa (art. 1226 e 2056 c.c.), salva la dimostrazione di specifici danni».

Il fenomeno è rimasto a lungo nel limbo della giurisprudenza e spesso il mobbizzato non ha ottenuto alcuna tutela, né il mobbizzatore alcuna sanzione, benché a più riprese se ne sia occupato anche il Parlamento Europeo. Di recente, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con la sentenza 44890/2018 ha stabilito che le condotte vessatorie da parte del datore di lavoro commesse in danno del dipendente possono portare ad una condanna per lesioni personali di cui all’articolo 582 del Codice penale.

Purtroppo, tuttavia, non sembrano trovare argine le vessazioni in ambito lavorativo, che in Italia interessano almeno un milione e mezzo di persone, secondo una recente stima dell’Ispesl (Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, confluito nell’Inail) pur essendo il fenomeno ancora in gran parte sommerso.