LA PAROLA

O

O è la tredicesima lettera dell’alfabeto italiano. Il segno O deriva dal semitico, attraverso il greco e il latino. I greci lo adottarono per indicare in origine la vocale O sia breve che lunga. Successivamente, dal VII secolo a.C., si differenziò in due segni e, accanto alla omicron che rimase per la O breve, comparve una nuova lettera per la O lunga, ovvero omega. I Latini la accolsero senza la differenziazione, come quattordicesima lettera del loro alfabeto.

In italiano, rappresenta graficamente due distinti fonemi vocali: si può leggere aperta e larga come in soia, buono, cuore, risotto, troppo, ginocchio; oppure chiusa e stretta come in azione, bisogno, noi, pero, sogno, dopo. L’ortografia corrente la rappresenta nello stesso modo e questo può creare incertezze nella pronuncia, tanto più che in molti dialetti si conosce soltanto uno dei due timbri della O. Per questo motivo, dal 1500, si è convenuto di segnare l’accento acuto sulla O chiusa e l’accento grave su quella aperta. Questa convenzione permette di distinguere parole che hanno la stessa grafia, ma suono differente, come bòtte (percosse) e botte (grosso recipiente di legno), pero e però.

La O ha molti usi comuni diversi tra loro: per la sua forma, è portata ad esempio di rotondità, tanto che di un oggetto perfettamente circolare si usa dire “tondo come la O di Giotto”. Se è maiuscola e puntata, O. è abbreviazione di nomi di persona che iniziano con questa vocale. Senza punto, è l’abbreviazione di ovest nella carte geografiche italiane. In chimica, è simbolo dell’ossigeno. In matematica, indica un punto di riferimento come, ad esempio, l’intersezione di due rette; collocata in carattere piccolo a destra in alto di un numero, è simbolo del grado, esempio un angolo di 45°.

Nel codice internazionale delle segnalazioni marine, la bandiera che corrisponde alla lettera O è rettangolare e divisa in due triangoli, uno giallo e l’altro rosso; alzata da sola significa “Uomo in mare”.

È anche un’interiezione primaria che esprime lo stato emotivo di colui che parla con forte valore affettivo. Un esempio tipico lo troviamo nel canto popolare delle mondine Bella ciao: «O mamma mia, o che tormento!». Nell’italiano corrente, sia scritto che parlato, viene più comunemente usata la forma oh per esprimere sia sorpresa e meraviglia che sdegno, compassione e richiamo: “Oh, che bello!”, “Oh, che succede?”, “Oh, che brutta storia!”, “Oh, poverino!”, “Oh, stai attento!”

La O è usata anche come preposizione che introduce e rafforza il vocativo. Alcuni esempi dall’italiano antico: «O animal grazioso e benigno» (Dante Alighieri, Inferno), «Sgombra, o gentil, dall’ansia/mente i terrestri ardori» (coro dell’Adelchi sulla morte di Ermengarda, Alessandro Manzoni) e dall’italiano moderno: “O cari amici miei!”, “O padre, ascoltami!”

È una congiunzione con valore disgiuntivo, che ha la funzione di unire sintatticamente due elementi della proposizione o del periodo dei quali l’uno esclude l’altro o si pone in alternativa all’altro. Nel linguaggio comune, queste due accezioni sono molto diverse tra loro. La prima indica una disgiunzione di tipo esclusivo per cui i due termini si contrappongono, escludendosi reciprocamente. Quindi una scelta tra due possibilità: “essere o non essere”, “bianco o nero”. Spesso è ripetuta davanti al primo termine e agli altri, in modo da sottolineare la necessità della scelta: l’alternativa è netta. “O con me o contro di me” “O la busta gialla o la rossa o la bianca”, “O la borsa o la vita!”, «nei tumulti popolari c’è sempre un certo numero d’uomini che, o per un riscaldamento di persone, o per una persuasione fanatica, o per un disegno scellerato, o per un maledetto gusto del soqquadro, fanno di tutto per spinger le cose al peggio» (Alessandro Manzoni).

Nella seconda accezione, la O è una congiunzione disgiuntiva non esclusiva: è possibile che i due termini siano veri entrambi. “Si è ammessi all’esame con un buon voto in italiano o in matematica” significa che la possibilità di essere ammessi all’esame è duplice: sia che si abbia un bel voto in italiano sia che lo si abbia in matematica.

Sarebbe una grande trasformazione se ci abituassimo a pensare in termini di e…e invece che di o…o, se si lasciasse un po’ da parte il pensiero disgiuntivo che frantuma, isola, separa per abbracciare un pensiero più incline a collegare e connettere.

Il pensiero disgiuntivo è basato su identità fisse e dualisticamente contrapposte, è articolato in dicotomie antagoniste, è un pensiero che parcellizza e settorializza. Non sembra aver fatto del bene: ha trascinato l’uomo verso sentieri assoluti, chiusi e rigidi, verso mondi divisi e inconciliabili. Egli è ormai isolato dalla natura e dalla sua natura.

La sfida lanciata dalla complessità del reale ci imporrebbe di abbracciare procedimenti di pensiero differenti, di coltivare una conoscenza multidimensionale che implichi il riunire pur distinguendo, l’integrare invece che il contrapporre, in cui le polarità non siano vissute come irrimediabilmente antagoniste, ma come complementari: non esistono l’una senza l’altra e soprattutto l’una è nello stesso tempo l’altra; intrecciate e incastonate insieme coesistono simultaneamente.

Come scrive Edgar Morin (autore eclettico, filosofo, sociologo e politico): «Ormai, il problema da affrontare non sono solo gli errori di fatto (d’ignoranza), di pensiero (dogmatismo), ma l’errore di un pensiero parziale, l’errore del pensiero binario che vede solo o/o, incapace di combinare e/e, nonché, più profondamente, l’errore del pensiero riduttore e del pensiero disgiuntivo ciechi a ogni complessità» (Insegnare a vivere. Manifesto per cambiare l’educazione).

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