LA PAROLA

Olocausto

I Rom lo chiamano porajmos, il “grande divoramento”, oppure samudaripen, “tutti morti”. Per gli ebrei viene considerato preferibile utilizzare il termine shoah*, cioè “desolazione”, “catastrofe”, “disastro”, “tempesta devastante”. Eppure, da quando – nella didascalia di una foto pubblicata il 7 maggio 1945 dalla rivista “Life” – viene utilizzato il termine olocausto per descrivere il ritrovamento di prigionieri uccisi nel campo di Gardelegen, la parola è divenuta d’uso comune: non solo per definire lo sterminio degli ebrei d’Europa, ma anche l’annientamento di gruppi Rom e Sinti, comunisti, omosessuali, Testimoni di Geova, malati di mente, Pentecostali (equiparati, per qualche assurda ragione, ai disabili mentali). Tutti untermenschen, “sub-umani” per l’ideologia nazista, degni solo di scomparire, ridotti in cenere nei forni crematori dei campi di sterminio.

Si parla di olocausto anche per altri casi di genocidio, come quello armeno – che portò all’uccisione di due milioni e mezzo di cristiani da parte del governo nazionalista ottomano dei Giovani Turchi tra il 1915 e il 1923 –, il massacro dei nativi americani o quello in Ruanda negli anni Novanta del XX secolo. Spesso, il termine è usato per indicare l’uccisione deliberata di molte vite umane: l’olocausto nucleare, ad esempio, conseguenza di una guerra atomica.

Eppure, a voler essere precisi, il significato della parola olocausto è tutt’altro. Deriva dal termine greco holòkaustos, che vuol dire “bruciato interamente” ed era inizialmente utilizzata per indicare la più pura e retta forma di sacrificio prevista dall’ebraismo delle origini. Nell’Antico Testamento, ‘olah, “ciò che va in alto”, è un termine ricorrente, specie in occasione di sacrifici rituali di animali uccisi e bruciati sull’altare del tempio, per sancire il rinnovarsi dell’alleanza tra il Dio d’Israele e il proprio popolo. Fino al sacrificio, estremo, paradossale e mai espletato, chiesto ad Abramo nella Genesi: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, va nel territorio di Moriah e offrilo in olocausto su un monte che io ti indicherò».

Il fraintendimento, per cui un termine religioso arcaico, di ascendenza biblica, associato a un’idea di purificazione e di rinnovo di un patto identitario, possa essere passato a designare le atrocità compiute da uomini nei confronti di altri uomini, è quasi subliminale. Se si eccettua la prosa dannunziana, che definisce Fiume “città olocausta” dopo i bombardamenti, lo slittamento di significato appartiene alla stampa generalista dell’immediato secondo Dopoguerra, forse nella necessità psichica (e oggettiva) di giustificare in qualche modo le efferatezze che via via venivano alla luce. Tuttavia, negli ultimi decenni, si è rivelato più corretto eliminare, specie nelle trattazioni e nella ricerca documentaria, qualsiasi accenno a terminologie d’ambito religioso, preferendo porre l’accento (in particolare per ciò che concerne lo sterminio degli ebrei) sull’insensatezza della catastrofe, sulla tempesta che tutto cancella.

 

*TESSERE pubblicherà un articolo sulla parola shoah, in maniera più estesa, per il Giorno della Memoria, il 27 gennaio