LA PAROLA

Ospite

Esistono parole che potremmo definire bicefale, nel senso che hanno un doppio significato e ciascuno di essi ha pari valore e dignità. In linguistica questo fenomeno si chiama polisemia e non si può negare che eserciti un certo fascino. Ospite è una di queste parole polisemiche perché, in italiano come nelle altre lingue derivate dal latino, indica sia chi ospita sia chi viene ospitato (in inglese, invece, ci sono due termini diversi: host è chi ospita, guest è l’ospitato). Inoltre, andndo indietro nel tempo, questa parola nasconde un significato quasi opposto a quello di oggi: la radice del termine hospes latino, da cui deriva ospite, riecheggia infatti quella di hostis, che significava straniero, forestiero, ma anche nemico.

Alcuni vocabolari fanno risalire il termine hospes a una sorta di crasi tra hostis e potis, cioè padrone; la parola vorrebbe dire, in pratica, “padrone dello straniero”. Del resto, ancor oggi, quella dell’ospite è una di quelle condizioni ambivalenti in cui si rischia di non capire più chi tra l’ospitante e l’ospitato sia ostaggio (parola a sua volta derivata da hospes) dell’altro. Non a caso nella cosiddetta sindrome di Stoccolma, osservata dagli psichiatri molti secoli dopo, i ruoli di carceriere e prigioniero tendono a invertirsi e tra vittima e carnefice può crearsi un legame fortissimo di odio-amore.

Questa ambivalenza oggi non si coglie più, se non tramandata dalla saggezza popolare. Ce lo raccontano i proverbi, che recitano: «L’ospite è come il pesce: dopo tre giorni puzza», «l’ospite e il pesce dopo tre dì rincresce», «ospite raro, ospite caro». Analogamente, un proverbio inglese sottolinea che «l’ospite permanente non è mai benvenuto». Questa ospitalità “a orologeria” non è prerogativa dei tempi moderni. Già un proverbio latino diceva che «post tres saepe dies piscis vilescit eh hospes: ni sale conditus sit vel specialis amicus»: dopo tre giorni il pesce e l’amico perdono freschezza a meno che sia messo sotto sale o sia un amico particolare.

Plauto, che la sapeva lunga, nel III atto del Miles gloriosus mette in scena una simpatica scenetta tra un padrone di casa e il suo ospite, dove quest’ultimo si schermisce con quelle frasi di circostanza del tipo «non ti devi disturbare», «non vorrei incomodarti»; e l’altro ribatte con altrettanto fasulle risposte sul genere: «Ma quale disturbo, per me è un piacere». Dice infatti l’ospitato: «Mi rincresce per le spese che ti ho fatto fare. Per quanto amico sia colui che lo ha invitato, nessun ospite, che si trattenga per tre giorni di fila, può fare a meno di puzzare. Se poi i giorni sono addirittura dieci, è un’Iliade di malumori. E anche se il padrone sopporta senza fare una piega, i servi cominciano a mugugnare». E il padrone di casa ribatte: «I servi? Gli ho insegnato a servirmi, caro il mio ospite, non a comandarmi, non a considerarmi il loro tirapiedi. Se non gli piace quello che mi piace, la barca resta mia e loro debbono remare». Tempi in cui l’ospite era sacro, come scriveva Ovidio: «Turpius eicitur quam non amittitur hospes», è cosa più turpe cacciare che non accogliere un ospite.

Oggi l’ospite scade forse prima dei tre fatidici giorni. Lo stress dei tempi moderni e il cambiamento d’abitudini hanno cambiato un po’ l’accoglienza, forse più al nord che al sud. Un tempo nelle case c’era la “camera degli ospiti”, oggi i costi degli alloggi non permettono di sprecare spazio per alloggiare qualcuno di passaggio una volta ogni tanto. Ma il concetto di accoglienza resta insito nella parola, che ne richiama all’orecchio altre dalla stessa derivazione: ospedale, ospizio, oste, ostello.

Il galateo detta regole precise sia per l’ospitante sia per l’ospitato. Il primo deve fare in modo che l’altro si senta come a casa propria, che non gli manchi nulla che ne vengano rispettati gusti, abitudini, intolleranze alimentari. Chi si trova in casa d’altri invece non deve considerarla un albergo né farsi servire senza muovere un dito, ma collaborare con i proprietari e comportarsi con discrezione. In bagno troverà anche piccoli asciugamani che proprio da lui, l’ospite, prendono il nome. In nessun caso potrà andarsene “insalutato ospite”.

Nel mondo animale e vegetale l’ospite è spesso considerato un parassita, ma in una società umana dai confini aperti e sempre più multiculturale la parola potrebbe, un giorno, perdere di significato. Basterà ricordarsi che siamo tutti ospiti sullo stesso pianeta, e per un periodo di tempo limitato.

 

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