LA PAROLA

Ossaimòrtu

Nelle tradizioni che onorano la festa dei morti in Sicilia, si inserisce il termine ossaimòrtu (ossa di morto) composto da due parole legate dalla fonologia. In alcune località si pronuncia ossuimòttu, ed è un dolce che si trova nelle pasticcerie solo in questo periodo, anch’esso composto da due parti: una base caramellata e croccante con sovrapposte caratteristiche piccole vertebre, tibie o falangi, bianche e friabili, somiglianti alle ossa umane, da cui il macabro nome.

Negli anni passati i bambini non sapevano di Babbo Natale, né della Befana e tantomeno di Halloween. Dolciumi, frutta secca e giocattoli, senza farli impaurire, glieli portavano i morti, nella notte tra il primo e il 2 novembre. Alcuni di loro erano stati conosciuti dai bambini in vita, altri visti da sempre nei quadri appesi alle pareti di casa o in sbiadite fotografie in bianco e nero, tenute come reliquie nell’album di famiglia. I genitori, per l’annuale ricorrenza, ricordandoli amorevolmente, li rendevano vivi agli occhi innocenti dei figli, sollecitati a preparare con linde tovagliette di sfilato i cànzi (le postazioni), dove in punta di piedi, nel buio della notte, sarebbero arrivati i morti dall’Aldilà per lasciare i doni e, senza farsi vedere, sparire nella sacralità dell’alba.

Al levarsi del sole, si sentiva per le strade: «Chi ti fìciunu truvari i morti?» («Cosa ti hanno fatto trovare i morti?»). Rivolta ai bambini era la frase del giorno, che si ripeteva anche nei viali del cimitero, dove in processione si portavano crisantemi e dalie ad infiorare le croci di marmo con gli antichi ritratti di porcellana, corrosi dal tempo. Tra una requiem aeternam e frettolosi segni di croce si incontravano nell’abbraccio amici e parenti: «E a tia Pippuzzu chi ti lassànu i morti?» («E a te Pippuccio cosa ti hanno lasciato i morti?»). Felice rispondevo: «Me’ nannàu ‘ncavaddittu, me nanna ‘ntamburèddu, me’ ziu Franciscu l’urganettu e poi, no sàcciu chi purtau, ‘na trummètta, dàttuli, llicca llicca e ossaimòrtu» («Il mio bisnonno un cavallino, mia nonna un tamburello, mio zio Francesco l’armonica e poi, non so chi l’ha portati, una trombetta, datteri, lecca lecca e ossa di morto»). «Mìzzica, po’ iarmàri ‘n orchistrìna! E bràu bràu davèru, vol diri ca ti miritàvi!» («Caspita, puoi formare un’orchestrina! E bravo bravo davvero vuol dire che te li meritavi!»).

Dopo le compiaciute risatine, tra gli adulti cominciavano, a perenne memoria, i pettegolezzi sullo sfarzo delle tombe edificate per qualcuno, magari indebitandosi, sul carattere e la personalità di alcuni defunti con retorici epitaffi sulle lapidi o di litigi tra gli eredi che sperperavano le ricchezze alla faccia del morto… «picchì, cummàri – sentenziava Maria – ‘a robba ca fà na sfà», («perchè, comare, la roba chi la fà non la disfà») e non si sono mai degnati di accendergli ‘na sfummacèlla (un lumino).

Le storie sconvolgenti, riesumate dai chiacchiericci paesani, si riprendevano la sera, in famiglia, sgranocchiando l’ossaimòrtu attorno al pediconca (braciere) e mentre scrivo ne riaffiorano alla mente alcune che non hanno niente da invidiare alle poesie di Edgar Lee Masters pubblicate nell’Antologia di Spoon River. In una di quelle sere dissi a mia madre: «…mi pigghi ppi fissa, i riali ci metti tu, non su’ i morti ca ‘i pòrtunu!» («…mi prendi in giro, i regali li metti tu, non sono i morti che li portano!»). Immediata e decisa la risposta: «‘ccussì dici? Vistu ca non ci cridi non vènunu chiùi!» («cosi dici ? Visto che non ci credi non verranno più»).

 

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