LA PAROLA

Pacchia

Estate. Ombrellone, lettino, brezza fresca di maestrale, uno sprirtz e a pochi passi acqua cristallina. Quale migliore descrizione di pacchia, se non la vacanza per antonomasia, ovvero quella sulla spiaggia senza toccar pallino, come si usa dire.

Pacchia, cuccagna, bengodi, lieto vivere, far niente…una condizione invidiabile, «di vita o di lavoro, facile e spensierata, particolarmente conveniente, senza fatiche o problemi, senza preoccupazioni materiali; avere da mangiare e bere in abbondanza», si legge sul vocabolario Treccani, alla voce pacchia.

Sostantivo femminile molto usato nella lingua di tutti i giorni, secondo alcuni studiosi deriva dal verbo pacchiare, di origine incerta, con tutta probabilità dialettale e onomatopeica, legata al rumore che viene fatto con la bocca quando si mangia. Altri collegano pacchiare al latino pabulum, (pascolo, foraggi) oppure a patulare, spalancare la bocca, da cui deriva paciar, muovere le mascelle, in Veneto, pacia’ a Milano, pace’ in Piemonte con il significato di mangiare abbondantemente e con ingordigia.

Considerando che pacchiare risale al XVI secolo, la condizione di poter muovere le mascelle per mangiare in abbondanza era davvero già di per sé una pacchia.

I tempi sono cambiati, oggi la pacchia è assai più articolata: soldi, riposo, poca fatica, zero pensieri. «Da quando ha ereditato i soldi dei genitori, per lui è iniziata la pacchia», «ha trovato un lavoro che è una pacchia» e simili espressioni che descrivono una situazione ottimale e invidiabile.

Purtroppo, ahimè, la pacchia è assai spesso una condizione temporanea. E allora si usa dire «è finita la pacchia», espressione usata comunemente nei contesti più vari: nel lavoro, a scuola, in politica, nella vita di tutti i giorni, ogni volta che vengono meno le circostanze favorevoli che hanno prodotto la pacchia e inizia viceversa una situazione meno fortunata, in cui non si può far a meno di faticare ed avere preoccupazioni.

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