LA PAROLA

Pasta

 

La pasta nelle due versioni, secca e fresca, ha avuto nei secoli percorsi paralleli, legando però sempre lo sviluppo della produzione alla tradizione.

Un tempo in Italia si svilupparono diversi centri di produzione, ma in origine le più significative corporazioni di pastai si concentrarono a Genova, Bologna, Palermo, e nelle manifatture del golfo di Napoli. La diversa provenienza dei grani utilizzati, l’acqua e il clima determinarono specialità diverse e differenze sostanziali tra le tecnologie adottate dai vari pastifici.

Se per la lavorazione della pasta fatta in casa i metodi per tirare e tagliare la sfoglia –con la mano che modella– sono rimasti pressoché immutati nei secoli, per la pasta secca, invece, abbiamo assistito ad una lenta ma significativa evoluzione. Da una fase artigianale o quasi, con l’utilizzo di torchi, trafile e gramole a stanga siamo giunti ad una prettamente industriale, intensiva e continuativa.

Con l’era industriale si è scritto un nuovo capitolo della storia della pasta e così dai primi “marchingegni” si è passati ad una generazione di macchine capace di riprodurre, con precisione e forza decuplicata, i gesti antichi e precisi dei maestri pastai.

È stato scritto che la pasta è “architettura per la bocca”, e pastai-architetti si sono sbizzarriti nei secoli per soddisfare gli occhi e il palato dei buongustai.

Se ancora per tutto il Settecento quasi tutti i formati di pasta furono etichettati come maccheroni, vermicelli e lasagne, in seguito la produzione cambiò “fisionomia”, e oggi i formati di pasta in commercio sono decisamente molto numerosi. Fra tutte le pietanze italiane la pasta certamente è quella che si presenta in più specie e varietà locali.

I tipi di pasta consumati in Italia sono oltre 300, classificabili in paste secche e fresche (piene o bucate), corte, fini, lisce, rigate e così via. Non deve stupire che nell’800, grazie al lavoro e fantasia dei trafilai, fossero già più di duecento le “fogge” conosciute, e ancora oggi l’inventiva dei produttori si sbizzarrisce a crearne sempre nuove per l’occhio e la gola di chi compra. La forma non è solo frutto della fantasia, i diversi formati sono anche una questione di gusto, la scelta è legata anche alla consistenza e al condimento al quale si dovrà sposare.

Un aspetto curioso e interessante è quello relativo ai nomi della pasta, e cercheremo di risalire ai criteri che ne hanno dettato la “nomenclatura”, tenuto conto che attualmente esistono denominazione diverse in concorrenza fra loro, per indicare lo stesso tipo di pasta industriale, in virtù anche delle diverse tradizioni lessicali regionali.

Come scriveva già Prezzolini in una serie di interessanti scritti dedicati alla pasta nel volume Maccaroni & Co pubblicato nel 1957 sottolineando il carattere popolare dei nomi: «In esso colpisce la ricchezza dei termini, la grazia dei diminuitivi, la scherzosità di certi superlativi, l’evidente meraviglia di certi accrescitivi … nomi, davvero, son un simbolo delle divisioni regionali italiane, e anche dell’unità della penisola, perché vagarono alle volte di qui e di là e ora son diffuse un po’ da per tutto».

Molti parti del corpo umano sono state di riferimento nell’attribuzione di nominativi e così abbiamo avuto lingue, capellini, orecchiette, gomiti, occhi, ricci e persino gozzi che vanno e vengono dai cataloghi dei pastai.

Molti nomi indicano la qualità, importante in certe paste lunghe, d’esser traforate; annoveriamo la “famiglia” dei foratini, bucatini, perciatelli (forse dal dialetto napoletano pertusio, ossia buco) tubetti, cannoni, pipe.

Altra famiglia che si è fatta segnalare per le sue forme attorcigliate è quella dei torciglioni, tortiglioni, fusilli (sempre dal dialetto napoletano). Allo stesso gruppo, ma evidentemente di origine dotta, sono le paste elicoidali, dette più semplicemente eliche.

La zoologia, la botanica e persino il mare, hanno offerto molteplici possibilità per la terminologia delle paste: strisciano come lumache, svolazzano come farfalle, sono aggrappate agli scogli come conchiglie, arselle, telline.

Quando viene presa in considerazione l’azione del taglio nella tecnica di lavorazione abbiamo tagliatelle, tagliolini, taglierini, oppure quello che il taglio ha prodotto, fresine, fettucce, fettuccine… e maltagliati.

La pasta lunga può essere a sezione cilindrica, piena o forata, e rettangolare o “bombata”. Per la prima annoveriamo dapprima vermicelli e spaghetti, con diminutivi – spaghettini, vermicellini – o maggiorativi – spaghettoni, vermicelloni – o nomi propri: capelli d’angelo, capellini, bucatini, mezzanelli, mentre zite e zitoni, venivano originariamente servite per il pranzo della ragazza da maritare, fino ad allora zitella.

Dalla versione industriale delle tagliatelle lunghe a sezione lenticolare abbiamo linguine, bavette, tagliarelli, lasagnette. Forse le più famose rimangono le trenette, dal dialetto genovese tarnètti, lacci da scarpe.

Nel passato le pastine erano molto più diffuse. Vasta la scelta fra puntine, risoni, stelline, anellini lisci e rigati, quadrucci. Dal mondo vegetale venivano i diversi semi (di melone, di mela, di cicoria o i grani di pepe). Suonano d’antico anche gli alfabeti, le carte da gioco, gli animaletti e altre “fantasie”. Si trovano ancora i corallini, non è difficile risalirne all’origine che li lega alla preghiera, e sempre ispirandosi ai grani del Rosario, quei formati minuscoli si chiamavano, anche avemarie e paternostri. I più devoti, sprovvisti di orologio, potevano così calcolarne il tempo di cottura nello spazio di una preghiera.

Anche il cielo fu chiamato in aiuto per nominare le paste: abbiamo lune, stelle, stelline, fino alla grandine, una pastina che piove a forma di granelli.

Se un certo anticlericalismo traspare ancora oggi negli strozzapreti sono invece scomparsi ai giorni nostri i riferimenti a fogge di vestito delle religiose: come le raganelle di monache, una sorta di maccheroni incavati come falde di certi desueti cappelli delle monache.

A fine Ottocento i ditalini rigati presero il nome di garibaldini. Per contrapporsi, casa Savoia fece catalogare come mafalde e mafaldine le fettuccelle ricche, dal curioso orlo ondulato, create in occasione della visita a Gragnano della principessa Mafalda, figlia del re d’Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena, che ebbero in seguito una versione coloniale con i nomi di tripoline e bengasine. Così come la conquista del porto di Assab, sul Mar Rosso, nel 1882, aveva dato il via agli assabesi (delle grosse conchiglie) e, poco dopo, ai quasi identici abissini.

Ricordiamo come durante il fascismo il tentativo di lanciare dei fasci littori ebbe cattivo esito, più per ragioni di cottura che politiche.