LA PAROLA

Pazienza

«Pazienza: disposizione d’animo, abituale o attuale, congenita al proprio carattere o effetto di volontà e di autocontrollo, ad accettare e sopportare con tranquillità, moderazione e rassegnazione, senza reagire violentemente, il dolore, il male, i disagi, le molestie altrui, le contrarietà della vita in genere», recita il vocabolario Treccani.

La parola deriva dal latino pătĭor, tollerare, sopportare, a sua volta derivato dal greco pathein, soffrire, emozionarsi. Va da sé che “avere pazienza” non sembra affatto un atteggiamento positivo, ma piuttosto la naturale inclinazione alla sofferenza che nasce, a sua volta, dalla sopportazione. Tant’è che pazienza indica anche una parte dell’abito di alcuni ordini religiosi che si infila dalla testa, lasciandolo pendere sul davanti e sulla schiena. Lo scapolare, insomma.

La pazienza è una virtù della teologia cattolica che distingue gli uomini capaci di controllare il dolore, l’angoscia e la depressione derivati da eventi occasionali e avversi. È la virtù dei forti, universalmente riconosciuta come tale.

Ma se è la virtù dei forti, allora essere forti significa avere la capacità di sopportare anche l’arroganza, la prepotenza e le molestie altrui. Con un assunto del genere, non sarebbe meglio essere impazienti? Quindi niente affatto inclini a tollerare, ma decisi a far valere le proprie ragioni. L’impaziente è necessariamente debole, impulsivo e arrogante?

Alla pazienza sono dedicate “perle di saggezza” di altrettanti saggi illuminati, frasi fatte e proverbi, di quelli che la mattina si trovano sui social e che viaggiano nelle chat, evoluzione tecnologica delle vecchie catene di Sant’Antonio.

Celebre l’aforisma di Thomas More «Che io possa avere la forza di cambiare le cose che posso cambiare, che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non posso cambiare, che io possa avere soprattutto l’intelligenza di saperle distinguere». Qualche mente altrettanto illuminata (senza offesa per More) ha parafrasato il concetto in «Dio dammi il caffè per cambiare le cose che posso cambiare e il vino per accettare  quelle che non posso cambiare».

La pazienza presuppone tempo, lentezza. Come sarebbe possibile, diversamente, immaginare il cinese seduto sulla riva del fiume ad aspettare che passi il cadavere, mentre si agita, smanetta, fa cinque o sei telefonate, spippola su Whatsapp, condivide una foto su Instagram, pubblica la diretta dell’attesa su Facebook, fa la spesa on line? Sicuramente il cinese di oggi si siede sulla riva del fiume, cinque minuti al fresco, il tempo di prenotare un volo su Skyscanner per raggiungere il suo nemico, che magari sta dall’altra parte del mondo, e riempirgli il muso di schiaffi.

«Chi ha pazienza può ottenere ciò che vuole» pare abbia detto Benjamin Franklin, il quale di pazienza  ne aveva tanta, se tra le altre cose che ha fatto, si è messo ad aspettare saette per sperimentare il suo parafulmine.

Comunque sia, val la pena tenere a mente come la pensa al riguardo Roberto Gervaso: «Ciò che più mi fa perdere la pazienza è l’esortazione a mantenerla».

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