DAILY LA PAROLA

Perdonare

Ha a che fare con il dono, con la capacità di rinunciare ai sentimenti di odio e di vendetta e di offrire a chi ci ha offeso una seconda chance

Il verbo perdonare e il sostantivo perdono da esso derivato sono due parole quasi sacre, indipendentemente dal fatto che le si usino nel contesto giuridico o in quello religioso dove prevalentemente vengono impiegate.

La loro sacertà sembra risiedere nel fatto che in entrambe è racchiuso l’aver a che fare con un “dono”, la volontà di regalare: per-dono, per-donare. E l’atto di donare è qualcosa che innanzitutto parte spontaneamente da chi lo compie; poi è mosso da un sentimento benevolo. Dall’amore, in una qualche sfumatura attribuibile a questa abusata parola. Infine l’atto di donare consiste nel produrre un beneficio a chi lo riceve ma anche a chi lo compie e per quest’ultimo il beneficio è dato dal fatto che l’altro ne sia il beneficiario.

La sacralità del perdonare è racchiusa nel fatto che esso significhi – come spiega il Vocabolario on line della Treccani – «non tenere in considerazione il male ricevuto da altri, rinunciando a propositi di vendetta, alla punizione, a qualsiasi possibile rivalsa, e annullando in sé ogni risentimento verso l’autore dell’offesa o del danno».

Sì, il perdonare ha a che fare con “il male”, necessita di esso. Ma anche, come si è appena evidenziato, con “il bene”, cioè con il beneficare e con l’amore. Al punto da rinunciare al risentimento e alla vendetta.

Sia chiaro: non tenere in considerazione il male non significa dimenticare. Spiegava magistralmente Primo Levi nel racconto Vanadio de Il sistema periodico: «Mi dichiaravo pronto a perdonare i nemici, e magari anche ad amarli, ma solo quando mostrino segni certi di pentimento, e cioè quando cessino di essere nemici. Nel caso contrario, del nemico che resta tale, che persevera nella sua volontà di creare sofferenza, è certo che non lo si deve perdonare: si può cercare di recuperarlo, si può (si deve!) discutere con lui, ma è nostro dovere giudicarlo, non perdonarlo».

Nel suo contesto giuridico il verbo perdonare indica la rinuncia «a dare la punizione che si potrebbe dare, per generosità d’animo, indulgenza, benevolenza».

Nel suo contesto religioso invece (ma più propriamente in ambito cattolico), il perdono è la «remissione dei peccati concessa da Dio» da ottenere pregando o – attenzione, diversamente dal condono giuridico – espiando le colpe commesse. Non basta il pentimento. Si deve soffrire, il male va esperito per poterlo scacciare. Il perdono avviene se anche il colpevole patisce un male come quello patito dalla vittima.

Ma quel verbo patire, anziché essere inteso come umiliazione o punizione, può essere inteso come compassione, intima condivisione del dolore causato, sincera e profonda comprensione.

In questa direzione il perdono riconquista la dimensione che gli spetta del regalo e dello ieratico.

Altri significati arricchiscono il perdono. C’è quello attenuato, usato in espressioni di cortesia al posto di «scusi», come «perdoni il disturbo» o anche l’ardire o chiedendo una semplice informazione; c’è quello impiegato per lo più in senso negativo quando per esempio si parla di malattie che colpiscono in modo grave e allora si dice «il colera non perdonò né ricchi né poveri» o il cancro non perdona, è un male incurabile; quello antiquato, equivalente a “badare”, raramente impiegato nell’espressione «non perdonare a spese».

Ma per tornare al senso sacro del perdono, val la pena citare un noto verso del sommo poeta nel quinto canto dell’Inferno: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona». Che si ami e si perdoni. Per il bene proprio innanzitutto.

 

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