Sostantivo maschile, indica una serie violenta, furiosa di percosse, colpi. Deriva dal verbo pestare (che il dizionario Garzanti indica come termine del latino tardo pĭstare, pestare, pigiare) che descrive l’azione di battere, forte e più volte con uno strumento pesante per ammaccare, frantumare, tritare. E il verbo pestare, dunque, per estensione, indica il gesto di percuotere, battere, bastonare. Chi commette un pestaggio, quindi, si può supporre che percuota qualcuno con la volontà di ferirlo e frantumarlo, forse anche nell’animo e nella dignità.
E di pestaggio si è tornati a parlare proprio in questi giorni, in occasione del processo per la morte di Stefano Cucchi: all’udienza che vede imputati cinque carabinieri, uno di loro ha ammesso, nelle deposizioni rese pubbliche al processo, la brutale violenza avvenuta nei locali della compagnia Roma Casilina, confermando così le accuse della famiglia, che da anni si batte per scoprire la verità.
La tremenda morte di Cucchi è tornata oggetto di cronaca da qualche settimana, complice anche l’uscita del film Sulla mia pelle di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi nella parte della vittima.
Starà ai giudici (o al giudice?), adesso, stabilire le eventuali responsabilità. Quel che è certo è che la parola pestaggio, usata nel corso del processo, ha contribuito a scalfire il muro di omertà che in questi dieci anni si era innalzato, nascondendo la verità dei fatti.
E se di barbaro pestaggio si è trattato, accanto a Stefano, vittima purtroppo reale, in questi anni ve ne è stata un’altra: lo Stato di diritto e il buon nome e l’immagine di tutti quelli uomini dello Stato che mai potrebbero pensare di applicare la legge attraverso la violenza.