DAILY LA PAROLA

Pilpul (dibattito)

I rabbini, ogni tanto, si sono chiesti nei secoli come Dio trascorra le giornate. A tale quesito è stato risposto in vari modi: combina matrimoni, se ne sta seduto a giudicare gli atti umani, si mette il suo gigantesco scialle rituale, i filatteri e prega. La soluzione più bella, tuttavia, si trova nell’Avodah Zarah, il trattato consacrato alla discussione tra gli ebrei e gli idolatri. Lì i rabbini rivelano che, in realtà, Dio passa tre ore della sua giornata a studiare il Talmud, uno dei testi fondamentali dell’ebraismo postbiblico. E non è finita: «Su, venite e discutiamo», dice il Signore in Isaia,1,18. Ad interessarlo pare sia il dibattito, persino correndo il rischio di venir contestato; in conclusione, a Dio piace il pilpul.

La parola, in origine, deriva dal verbo ebraico pilpel, che letteralmente significa “condire”, “speziare” e, solo in senso lato, “dibattere violentemente”. Ufficialmente, si chiama pilpul il sistema d’interpretazione del Talmud, basato sulla minuta investigazione dell’argomento prescelto: ogni sentenza rabbinica viene sottoposta ad un esame meticoloso, fino a determinare il suo contenuto concettuale, assieme a tutte le possibili implicazioni logiche, contraddizioni comprese. Infatti, dato che esistono due versioni del Talmud che raccolgono opinioni ed interpretazioni della Bibbia, è inevitabile che talvolta risultino in contrasto tra loro. Lo studio sistematico di entrambe ha prodotto nella cultura ebraica una marcata propensione alla dialettica, quello che in italiano si definisce “spaccare il capello in quattro”. L’esercizio del pilpul prende la mano, provocando discussioni creative interminabili sugli argomenti più svariati, a tal punto che – fin dal sedicesimo secolo – il metodo è stato utilizzato nelle yeshivot (scuole rabbiniche) per sviluppare le facoltà espressive e logiche degli studenti.

Di più: il pilpul, come modalità concettuale, è considerato una delle quarantotto virtù che permettono d’imparare la Torah. Si dice, infatti, nel Talmud, che un argomento che preveda di risolvere una controversia è ritenuto una difficoltà (kushia), mentre quello che riaccende la discussione è considerato una soluzione (terutz). Il metodo pilpulistico non viene mai soddisfatto dall’ottenimento di un’opinione parziale perché – dopo aver raggiunto un qualche risultato – si torna ad analizzare la possibilità che lo stesso risultato possa scaturire da un’ulteriore (e diversa) argomentazione. Quello che se ne ricava, a parte il divertimento divino ad essere contraddetto, è il preciso rifiuto di ogni autoritarismo nell’animo ebraico. Pensare con la propria testa, senza sottomettersi ad un’autorità superiore, “essere lampada a se stessi” appaiono esigenze precise, come l’opposizione alla delega del potere. Questo principio spiega anche perché non esista nell’ebraismo la figura del sacerdote, investito della mansione d’intermediario tra la divinità e l’umano. Dunque “due ebrei, tre idee” (e neanche irremovibili), come sostiene il celebre detto.

Inoltre, viste nell’ottica del pilpul, le pagine del Talmud mostrano una strana somiglianza con le Homepages di Internet, in cui non c’è nulla di definitivo: le icone, i riquadri che le costellano sono porte attraverso cui è possibile accedere ad un’infinità di conversazioni e testi che rimandano l’un l’altro e talvolta si contraddicono. Il frutto più divertente dell’indagine pilpulistica è la sua applicazione alla letteratura gialla ebraico-americana, un vero e proprio genere in cui la decodifica del crimine (inteso anche come scrittura oscura) avviene attraverso passaggi solo apparentemente incongrui, in realtà sottilmente collegati tra loro da minimi dettagli. Tra tutti, spicca il rabbino detective David Small, uscito dalla penna dello statunitense Harry Kemelman: «Credere è interrogare» sostiene rav Small e il pilpul sta alla sua tenuta un po’ sdrucita come la pipa Calabash sta a Sherlock Holmes. «Il rabbino – scrive Kemelman – si alzò dalla sedia e cominciò a passeggiare per la stanza. “Non cominceremo dal cadavere, ma dalla borsetta”. “Perché?” “Perché no?”» Elementare Rabbi, questione di pilpul.