DAILY LA PAROLA

Pisòlu

Il pisòlu, in dialetto siciliano, è il gradino, la soglia in pietra lavica all'ingresso delle abitazioni nei paesini sull'Etna, ma è anche il muretto attaccato a qualche casa nei vicoli, con la seduta in mattoni

Nelle città ai piedi dell’Etna sulle facciate delle case e non solo, risaltano gli antichi portali in pietra lavica. ‘U pisòlu (il gradino) è la base della struttura architettonica che gli scalpellini, nelle millennarie pirrère (cave) della montagna, senza l’aiuto delle lame diamantate per sezionarlo, poggiato sul pietrisco, lo assemblavano su misura, con gli stipiti e l’architrave. Dopo, i muratori lo installavano nell’abitazione, alzandolo dal piano stradale e aggiungendo, se necessario, uno o più scalini, per consentire l’appoggio del piede prima di entrarvi.

Guardando le foto con i familiari in posa sul pisòlu, si rivivono le gioie e le tristezze di un tempo; dalla figlia con l’abito bianco nel giorno delle nozze, al figlio emigrato in terre lontane. Chissà se in quel momento ad entrambi gli balenavano in mente i giochi della fanciullezza, quando lei accudiva le bambole sui pisòli e lui, su quello più levigato, sfidava i coetanei ‘a pammàta (alla palmata) per vincere le figurine che il flusso d’aria faceva capovolgere dal mucchietto? Spesso, per gli schiamazzi, venivano cacciati dal padrone di casa che inseguendoli con la bacinella d’acqua tra le mani per bagnarli, sbraitava minaccioso: «Carùsi chi ievi ‘stu sbuddèllu ca facìti! Itivìnni a gghiucàri ‘nto vostru pisòlu! (Ragazzi cos’è questo bordello che fate! Andatevene a giocare sul vostro gradino!)» e indispettito versava l’acqua sul pisòlu per non farli più tornare.

All’istante le nonne intervenivano a loro difesa e dal pisòlu, come da un pulpito, si sbracciavano in interminabili bannètti (litigi) col vicino. Le stesse nonne che nei quartieri si ritrovavano a gruppetti, nelle calde serate estive, per commentare i fatti del giorno. Nel via vai, portavano ognuno la propria sedia, per sistemarla a semicerchio davanti al pisòlu dell’ospitante. Tra una chiacchiera e una risata, qualcuna sferruzzava la calza, altre mangiucchiavano fino all’ora del “taglia e cuci”, prima di lasciarsi, al rincasare degli uomini.

Le dicerie in paese proliferavano per tutti, anche i parenti stretti non sfuggivano al pettegolezzo, intercalato, a volte, da proverbiali metafore. Nel citarle si rimestavano con acredine storie personali e donna Rosa, la più anziana della combriccola, sentenziava: «O pisòlu ca no’ ti ridi, no’ ti pigghiàri a sèggia mi ti ssètti! (Al gradino che non ti sorride, non prendere la sedia per sederti!)». Donna Cuncetta annuiva a sostegno dell’amica e aggiungeva: « Arràssu du me’ pisòlu macàri ca evi me’ soru (Distante dal mio gradino anche se è mia sorella)». Forse del passato resteranno queste parole e le immagini sfumate sui pisòli delle case ormai abbandonate.

Un accenno a parte lo merita, in chiusura, ‘u pisòlu, il muretto attaccato a qualche casa nei vicoli, con la seduta in mattoni, dove le coppiette si appartavano, nascosti dai gelsomini rampicanti, per sussurrarsi parole d’amore e lo meritano anche i lunghi pisòli, rifiniti con artistici fregi scolpiti nella pietra vulcanica, appendici delle sontuose scalinate a ridosso delle chiese e dei palazzi storici, frequentati dagli anziani che, ancora oggi, seduti uno accanto all’altro, assorti nei loro pensieri si ritrovano, per scongiurare depressione e solitudine.

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