AMORE E DINTORNI VISIONI

E se pornografico fosse lo shopping-center?

Ripercorrendo un interessante articolo di Marcello Ravesi, esperto di lingua e letteratura italiana, per il Magazine della Treccani sull'ingresso nel vocabolario delle parole precedute dal suffisso "porno", una giocosa ricostruzione dei pregiudizi e dei postgiudizi su quanto ha a che fare con la voglia di veder corpi nudi in atteggiamenti provocanti e, d'altro canto, sullo spasmodico, quasi maniacale, desiderio di venderli quei corpi per farci su un sacco di soldi. Come si presume faccia una prostituta che in cambio di denaro....

Ripercorrendo un interessante articolo di Marcello Ravesi, esperto di lingua e letteratura italiana, per il Magazine della Treccani sull’ingresso nel vocabolario delle parole precedute dal suffisso “porno”, una giocosa ricostruzione dei pregiudizi e dei postgiudizi su quanto ha a che fare con la voglia di veder corpi nudi in atteggiamenti provocanti e, d’altro canto, sullo spasmodico, quasi maniacale, desiderio di venderli quei corpi per farci su un sacco di soldi. Come si presume faccia una prostituta che in cambio di denaro….

Non c’è bisogno di scomodare, come abbiamo fatto il 25 luglio scorso nella rubrica “Il numero” di TESSERE, la cifra di 75 milioni di persone – a tanto ammontano quelle che ogni giorno visitano il solo sito hard più grande del pianeta, PornHub, senza contare i dieci mila altri come YouPorn, Cam 4, RedTube – per dare conto di quanto l’esistenza umana sia pervasa della pornografia.

La quale, più che in quei coiti ossessivamente ripetuti con ogni angolatura e inclinazione nei video lì appunto messi a disposizione a buon mercato – anzi gratis, al solo prezzo di sorbirsi anche la pubblicità di altri siti immergendosi nei quali eccitarsi o annoiarsi tentando di farlo o di arnesi e accessori mirati al medesimo scopo e così facendo di rivelare le proprie inclinazioni per essere poi tempestati da altri messaggi promozionali di egual natura – sembra ormai aver preso consistenza negli espliciti leggings indistintamente indossati con indecenza da maschi e femmine, tanto etero quanto omo, o da spalline e fili interdentali fatti artatamente scappare da cosa li dovrebbe coprire, ovvero sia nel bisogno senza fine di avere da un lato sempre nuovi oggetti da possedere e mostrare, acciocché sia chiaro che li si possiedono e ciò indichi tanto la propensione al consumo quanto la capacità di acquisto proprie, e dall’altro di suscitare desiderio ma senza ammetterlo, mascherandolo anzi in qualche modo, più per affermare la propria capacità di esercitare un potere sul prossimo, che quella, fragile e vulnerabile, di avere una pulsione e di volerla soddisfare.

  Moda, cafonaggine, linguaggio limitato, eccesso di raffigurazione e perciò monopolio dell’immagine, oltre che le “supposte” (“presunte” ed anche “anali”) leggi di mercato, incarnano perfettamente quanto di pornografico – ovvero sia di riferibile alla “prostituta”, cioè alla “venditrice” – abbia pervaso l’esistenza umana, attingendo proprio al verbo difettivo d’origine indoeuropea pérnēmi – [πέρνημι] “io vendo”, dalla cui radice deriva anche il latino pretium e di lì il nostro “prezzo” – a cui attinge nel suo originario significato.

Che è quello di raffigurare, scrivendo o disegnando, “la puttana” (ed ovviamente “il puttaniere”) nell’istante della sua (della loro) attività.

Scrive l’esperto di lingua e letteratura italiana Marcello Ravesi in una bella e, per sua stessa ammissione, leggermente oscena storia del prefissoide porno-, proposta nel Magazine della Treccani – dove già abbiamo attinto per riferire, grazie agli articoli di Francesca Serafini, delle difficoltà del linguaggio a dir del sesso (vedi qui) e di come gli scrittori cerchino di districarsi fra quelle magagne (vedi qui) –: «Tutto nasce dal greco pornográphosi (πορνογράφος), composto di pórnē (πόρνη) “prostituta” [dal verbo appunto pérnēmi di cui si è già riferito, ndr.] e -gráphos, suffissoide di base greca col significato di “scrivere, descrivere, disegnare” (dal tema di γράφω “scrivo”). In senso proprio, dunque, il pornográphos è “chi scrive intorno alle prostitute”».

Così definito, che lo faccia per stimolare ormoni assopiti o, come ha fatto il sociologo Charlie Barnao, con il saggio Le prostitute vi precederanno edito da Rubbettino, affinché se ne sappia di più sul sesso a pagamento, non c’è differenza, pornografo resta.

E tale sarebbe lo stesso Ravesi, quando ci rende edotti del fatto che il termine compare «in un’opera enciclopedica di Ateneo di Naucrati (II-III secolo d.C.), i Deipnosophistai (pressappocco I dotti a banchetto)» dove eruditi convivialmente affrontano temi diversi, tra cui il mercimonio, o che «i precedenti Dialoghi delle cortigiane di Luciano di Samosata (II sec. d.C.)», sarebbero «la prima opera pornografica stricto sensu della tradizione occidentale».

A tirarci fuori dal gap pruriginoso dello stricto sensu – lo “stretto senso” per chi non ha studiato il latino – relativo al disquisir di mignotte (ricordate la ballata su Carlo Martello di De André e quel lapidario «è mai possibile, oh porco d’un cane / che le avventure in codesto reame / debban risolversi tutte con grandi puttane»?), contribuisce nel 1769 un libercolo di Restif de la Bretonne che secondo Ravesi ha il merito di far ricomparire il termine dopo secoli d’oblio, perché la sua operetta, Le pornographe, discetta di un progetto di riforma e regolamentazione della prostituzione.

Giunte o tornate in Italia, per lo più dalla Francia, le parole composte dal fatidico prefissoide porno – attinenti cioè, come s’è visto, al darsi in cambio di denaro – come “pornografia”, “pornografico”, “pornografo” ed anche “pornografista” si fanno strada nei dizionari nella seconda metà dell’Ottocento, per lo più alludendo a chi rappresenta o, per estensione, si compiace, «di letture o spettacoli osceni», come se tali fossero gli atti solo delle peripatetiche e non i medesimi compiuti senza obolo per la prestazione.

Nello stesso periodo vanno ad ingrossare il vocabolario anche l’aggettivo “pòrnea” (1873), «riferibile a una donna “che esercita il meretricio”, e il sostantivo – oggi tornato di stringente attualità – “pornocrazia” (1877), che sta ad indicare una “forma di governo caratterizzato dalla forte influenza esercitata dalle cortigiane, dalle favorite degli uomini di potere”, quindi, per estensione, “governo corrotto, che concede favori e privilegi non secondo il merito ma in base a personali preferenze”».

Lo attribuisce sul giornale “Il Progressista” un autore dell’epoca riferendosi alla politica di papa Sergio III, reo nel decimo secolo, d’aver «posto il governo dei fedeli nelle mani di drudi e baldracche» –, vivendo «impudico» e morendo «da ciacco». Della “meretrice svergognata” (meretrix satis impudentissima) e della “sfacciata puttana” (scortum impudens) che tennero nelle mani «il governo dei fedeli» e chissà che altro, il pubblicista rivela l’identità rifacendosi a uno scritto del 972 di Liutprando da Cremona: Teodora e sua figlia Marozia, due nobildonne romane.

Marcello Ravesi prende poi in esame lo strabismo che fra 8 e 900 conduce a tralasciare l’attinenza delle “porno-parole” con il loro significato originario di provenienza dai bordelli, fornendo i vocabolari del secolo del Progresso entrambi i significati – “scritto o immagine che riguarda la prostituzione” e “descrizione e rappresentazione di cose oscene” – e privilegiando il primo, per poi virare, restringendosi, verso “trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di atti sessuali espliciti od osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore”.

L’eros è andato a farsi fottere, resta solo chi fotte, o quanto meno fa intendere di volerlo fare.

Notando che nel Dizionario moderno delle parole che non si trovano nei dizionari comuni del Panzini, giunto nel 1942 alla sua ottava edizione, si specifica che «dal primo significato di “trattato intorno la prostituzione” […], il vocabolo è passato a indicare qualunque “scritto o disegno” o anche “discorso osceno”», Ravesi afferma «che la pornografia, intesa nell’accezione corrente, è un fenomeno relativamente recente».

Ma a dar mano al pornografo nel frattempo era giunto il cinematografo, ed ancor prima, a dar mano alla pornografia, c’era stato lo zampino della fotografia. Si diffondono in quella stessa seconda metà di secolo – il XIX – in cui le parole “porno-composte” si diffondono, si è visto come, perdendo – scrive Ravesi – «completamente il riferimento religioso, politico e filosofico» e lasciando che «l’unico ruolo socialmente riconosciuto alle rappresentazioni esplicite dell’attività sessuale» sia «quello della titillazione sessuale dei consumatori».

Eccola qui la parola magica che riconduce ai ragionamenti iniziali circa la mercimoniabilità non del corpo ma della raffigurazione del corpo: «La pornografia – aggiunge Ravesi – diventa una prodotto prettamente commerciale, che viene fabbricato per essere venduto: materiale sessualmente esplicito prodotto per il consumo di massa e che mira esclusivamente a indurre uno stato di eccitazione sessuale».

Lo fa appunto avvalendosi «da sùbito dei nuovi sviluppi della tecnologia: l’apparizione della fotografia (1840), e poi, sullo scorcio del secolo, l’invenzione del cinematografo. La ricaduta editoriale di questo sommovimento è enorme: d’ora in avanti il mercato librario e pubblicistico sarà invaso da prodotti seriali da leggersi rigorosamente con la sola mano sinistra».

Sarà tuttavia la stessa mano, quella “della” sinistra, anziché quella sinistra, a scuotere un po’ la lessicografia sulla pornografia e ad implementare i dizionari di neologismi porno-derivati.

Servendosi dell’azzeccatissima espressione “sessintutto” anziché “sessantotto” (e senza riferimenti goliardici al ruolo del ’69), Marcello Ravesi porta il lettore a decifrare la sonnolenza entro cui, per tutta la prima abbondante metà del Novecento, la lingua, e di conseguenza i libri che ne testimoniano lo sviluppo, si appisola.

«Dal 1900 al 1970 – scrive – i vocabolari registrano solo tre lemmi: pornofonia (1912) “incisione o registrazione di dischi o cassette di soggetto pornografico”, ma anche “discorso a carattere erotico o sconcio”; pornoteca (1950) “raccolta di scritti di argomento pornografico od osceno”, sul modello di biblioteca, discoteca, ecc; e, finalmente, pornocinema (1968) “locale per la proiezione di film a luci rosse”».

La “rivoluzione sessuale” – che da sola meriterebbe almeno una puntata della rubrica “Amori e dintorni”, per ricordarne entità, modalità, influenza e limiti – dagli anni ’50 ha fatto il suo esordio e nel fatidico anno delle lotte studentesche tocca il suo apice, ovviamente negli Stati occidentali, dove l’indispensabile è finalmente per lo più garantito.

In un mix di tette al vento davanti ai palchi di Woodstock o nel paginone centrale di “Playboy” – la rivista fondata nel 1953 da Hugh Hefner per il pubblico maschile, imperdibile in qualsiasi negozio di barbiere e clonata a più non posso – o ancora nei pruriginosi disegni di Satanik – il primo fumetto nero italiano uscito dalle penne di Magnus & Bunker che, a differenza di Kriminal e Diabolik, introduce una componente fortemente erotica –, o nel film Helga che finalmente dice come nasce un bambino o in un po’ di libri che rivelano come non si diventi ciechi masturbandosi, lo scossone arriva.

Nel 1972 il “Giornale d’Italia” titola C’è il boom del porno, attestando per la prima volta nella lingua italiana l’impiego del sostantivo maschile invariabile porno derivato da pornografia, impiegato però anche come aggettivo invariabile: una rivista porno.

Rispetto a pornografia – spiega Ravesi – il significato di questo sostantivo «è più specializzato, riferendosi proprio alle produzioni oscene a fine di lucro, principalmente cinematografiche (un porno, senz’altro, è un filmato)». E aggiunge: «Comunque, ci piace pronunciarlo mentalmente con una vibrante particolarmente intensa: porrrno, come fosse Porrrtobello».

Da allora, spiega lo studioso, è stata una vera e propria esplosione. Ecco, dunque pornoshop, pornocanzone, pornospettacolo, pornofumetto, pornoeditore e pornoeditoria, pornorivista, pornostampa, pornofilm e pornostar, ai quali si aggiunge la pornologia, scherzosamente coniata da Ennio Flaiano per dire “discorso o scritto di carattere erotico o di contenuto osceno”.

Un pullulare vero e proprio che ha portato a conteggiare i porno-lemmi impiegati nei principali vocabolari italiani dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi, nel 73% dopo il 1980, in crescita fra il 1980 e il 1990 (25%) ed ancora fra il 1990 ed il 2000 (28%), poi in calo fra il 2000 e 2005 (20%), senza contare quelle impiegate nel parlato ma non ancora cristallizzate nei santuari della lingua.

La sua parte l’ha fatta Ilona Staller, in arte Cicciolina, a cui presumibilmente si deve il termine pornodiva – da contrapporre alla “Casta diva” della Norma di Bellini impareggiabilmente interpretata da Maria Callas? – e probabilmente anche quello di pornoshow (“spettacolo pornografico che si svolge in un locale notturno o in un teatro”, 1987), nonché di pornodeputata (1987), essendo stata eletta nella X° legislatura del Parlamento italiano con il Partito radicale prima e quello dell’amore poi.

Malefici anni Ottanta – post-moderni e post-tutto – dice Ravesi, responsabili anche del pornoromanzo, del pornonastro, del pornovideo, del pornorock, del pornomanager, della pornocassetta, del pornotelefono e della pornotelefonata, del pornoclip, del pornoware, del pornomessaggio, del pornofestino, dei pornoeroina e del pornoeroe, del pornospettatore e, finalmente, anche del pornoconsumatore e del pornodipendente.

Per ognuna di queste parole, sulla Treccani Ravesi fornisce l’anno di nascita, riferendo anche dell’attecchimento psichiatrico del porno-prefissoide, assunto da pornoscopia quale “voyeurismo” e scopofilia, termine coniato nel 1942 che «malgrado l’ingannevole apparenza fonica», rimanda a un soggetto il quale «prova piacere esclusivamente, o quasi, alla vista delle nudità o degli atti sessuali altrui, per via del greco skopéō [σκοπέω] “osservo”».

Ed ancora di pornografomania, “impulso patologico a scrivere cose oscene” e, spesso all’«assidua frequentazione delle pubbliche latrine»; di pornolagnìa, «morbosa attrazione erotica per la prostituzione’ (comp. col gr. λαγνεία “libidine”); e ancora, ma più recente (2003), pornolalìa “tendenza compulsiva all’uso di linguaggio osceno” e i derivati pornolàlico agg. e pornòlalo agg. e sost».

All’espansione di quelle «neoformazioni costruite con porno» contribuisce secondo Ravesi «proprio negli anni ’80», lo stile giornalistico altrimenti detto “brillante”, al quale si associa «un ulteriore scatto qualitativo nella fruizione della pornografia»: la fase dell’home video «iniziata negli anni ’80 e culminata nel decennio 1990-2000 (anche col supporto del dvd)».

Finalmente a buon mercato per il pornofilo e il pornomane (entrambi del 1995) e ben redditizio per chi lo produce (porno-attività, 2002), il porno evita ora «imbarazzanti sedute collettive in squallidi cinemini» e trova rifugio «nel privato», più accessibile e domestico. Ed ecco pornovedette, pornoattrice, pornoattore, pornoritratto, pornocarriera, pornostarlet, pornofan, pornomassaggio, pornosoft, pornofoto, pornoparty, pornoracconto, pornoeloquio, porno-chic – «tendenza della moda estremamente provocante e allo stesso tempo elegante; piccante e sofisticato» o, spostandosi in avanti di qualche anno, inizio del nuovo millennio, pornoimpresario, pornotassa o pornotax, pornolusso – tendenza della moda che enfatizza il lusso, l’immagine e l’ostentazione provocante – pornobibliofilo, o, ritorno alle origini, pornivendola, intesa, seppur con sfumatura ironica, “donna che si prostituisce”.

Senza che assurgano agli onori del vocabolario, spiega Ravasi, in gioco entrano anche, il genere cinematografico pornoesotico, il pornonazista, e poi porno-comico, porno-thriller, pornopecoreccio, porno-gulag o, «nell’àmbito della trattatistica “seria”», pornocapitalismo, pornoliberismo, pornosocialismo, pornoteologia, pornosofia, «e su tutti lo smagliante pornotopia (1971), dove tempo e spazio sono interamente occupati dal sesso», fino al più recente pornopoli tratto dall’abbinamento del suffissoide porno con l’altrettanto felice suffissoide poli di tangentopoli o calciopoli, per riferire di scandali dove la tangente è versata in fellatio ed altri godimenti, ed esteso anche ad un gioco da tavola per scambisti.

Sempre al linguaggio giornalistico, capace anche di rivelare fenomeni sociali e realtà sottaciute od occultate, oltre che mode e modi di dire, vanno attribuiti termini come pornoturismo, pornoturista o pornogruppo riferiti a quel fenomeno di colonizzazione delle vagine e degli ani praticato dall’occidente capitalista all’apogeo della propria colonizzazione economica e che va sotto il nome di turismo sessuale.

«Similmente – scrive Ravasi –, la maggiore attenzione per i reati sessuali commessi nei confronti dei bambini che si registra dallo scorcio degli anni ’90 in poi implica la coniazione di termini che specificamente fanno riferimento alla pornografia di contenuto pedofilo: pedopornografia e pedopornografico, pornopedofilia e pornopedofilo, pedo-pornofilia e pedo-pornofilo (tutti attestati dal 1998 al 2004)».

L’ultima tappa – «per ora» – dell’indagine linguistica di Ravasi per la Treccani – tocca, quasi ovviamente, l’avvento di internet e le fortune del suffissoide porno. Addomesticato e domiciliato con l’avvento della rete, il descrivere l’attività della meretrice, di chi la frequenta e di chi li scimmiotta o fantastica di farlo, ne ha attenuato «i residui sentimenti di riprovazione», incentivandone la propagazione.

Ha dato origine a pornofile «file video che contiene filmati pornografici», all’aggettivo pornoinformatico relativo a ciò «che ha carattere pornografico ed è diffuso attraverso supporti informatici» ed «al malinconico pornonauta “chi naviga in Internet alla ricerca di siti pornografici”».

Ma non ha restituito l’effimera eccitazione di trovarsi dinanzi ad una puttana o ad una donna che non esiti, per piacer proprio, ad interpretarla. Buon filmino, sul 2.0.