LA PAROLA

Porrajmos

In romanesporrajmos significa “grande divoramento” o “devastazione”. Solo dagli anni Novanta, il termine definisce uno dei grandi “non detti” della storia del Novecento: lo sterminio dei rom e dei sinti nei campi di concentramento nazisti. La scelta del termine spetta allo storico britannico di origine rom Ian Hancock, dopo averla ascoltata nel racconto di un sopravvissuto. Hancock si è battuto nelle università di mezzo mondo per riportare sotto i riflettori del dibattito pubblico e nei libri di storia, fuori dal cono d’ombra in cui era rimasto per decenni, il massacro di almeno 500 mila zingari, forse di più, addirittura 1 milione per alcuni storici. Prima veniva derubricato ad effetto collaterale delle misure contro tutti gli “asociali” e i presunti criminali, pianificate dal nazionalsocialismo, nelle quali erano finiti anche i rom e i sinti. Ma a parlare per la prima volta di sterminio su base etnica anche per gli zingari era stata già alla fine degli anni Sessanta una storica ebrea, Miriam Novitch.

La politica di sterilizzazione forzata delle donne di etnia rom era iniziata nel 1933 e nel 1942, nel campo di concentramento di Auschwitz, c’era lo Zigeunerlager, il settore riservato agli zingari, collocato proprio accanto al laboratorio di Josef Mengele. Il loro numero di matricola era preceduto dalla Z di zingari. In quel campo ne furono uccisi 23 mila, 2.897 solo nella notte del 2 agosto 1944. «In una notte li avevano sterminati tutti – ha raccontato più volte, tra le lacrime, Piero Terracina, ebreo sopravvissuto ad Auschwitz-Birkenau – Vicino a noi c’era il campo dei sinti e rom: loro avevano ancora i loro bambini, i loro capelli, i loro vestiti. Pensavamo si sarebbero salvati e sarebbero tornati liberi per il mondo, come erano sempre stati. E invece una notte piombarono le SS, le sentimmo arrivare terrorizzati e tememmo che ci avrebbero uccisi tutti. Invece andarono da loro… La mattina oltre il filo spinato c’era solo silenzio, un agghiacciante silenzio. Il fumo nero dei forni crematori ci disse il resto. Ho visto tante cose terribili, ma non posso dimenticare la notte atroce del 2 agosto ’44, la notte dello sterminio degli zingari di Birkenau».

Il 15 aprile del 2015, il Parlamento Europeo ha votato una risoluzione per adottare il 2 agosto come “Giornata europea della commemorazione dell’olocausto dei rom” e per ricordare «i 500.000 rom sterminati dai nazisti e da altri regimi». Secondo le stime di Grattan Puxon, attivista zingaro e storico, morirono 15 mila dei 20 mila zingari tedeschi, 28 mila in Croazia, in Belgio 500 su 600, in Lituania, Lussemburgo, Olanda e Belgio lo sterminio fu totale.
Anche l’Italia si è resa complice della persecuzione di rom e sinti, prima con la promulgazione di leggi speciali, poi tra il 1940 e il 1943 con la deportazione nei campi, 23 in tutto, i principali ad Agnone, nel Molise, Perdasdefogu, in Sardegna e alle Tremiti. «Non potevamo lavorare, non potevamo uscire, se non ogni 15 giorni per comprare qualcosa da mangiare accompagnati dai carabinieri – racconta Milka Emilia Goman, internata ad Agnone – ma non avevamo niente, 30 lire al mese ci davano, non compravamo niente, tanta gente si ammalava e moriva per la fame, ho perso due cugini e un nonno».

Il monumento al Samudaripen di Tonino Santeusanio

È una delle tante testimonianze che si possono ascoltare nel museo virtuale porrajmos.it che raccoglie materiale per documentare l’entità della persecuzione in Italia. Un work in progress che ancora poco ci dice su quanti finirono nei lager nazisti e quanti non fecero ritorno. A ottobre 2018, a Lanciano, è stato inaugurato un monumento che raffigura una donna e un bambino imprigionati nel filo spinato per ricordare lo sterminio dei rom, realizzato dallo scultore Tonino Santeusanio, intitolato Samudaripen, che significa “Tutti morti”, l’altro termine romanes per indicare il genocidio. Sul monumento sono iscritti i versi della poesia Auschwitz del poeta e intellettuale rom, Santino Spinelli, gli stessi incisi nell’unico altro monumento al mondo che ricorda la strage degli zingari, inaugurato a Berlino nel 2012.

Ma forse la prima opera di arte pubblica dedicata a questo capitolo dell’orrore nazifascista è una sorta di anticipo delle pietre d’inciampo ideate dall’artista tedesco Gunter Demnig: «Nel 1990 mi hanno chiesto di realizzare qualcosa sulla deportazione dei 1.500 sinti di Colonia che nel 1940 furono trasferiti da un campo di prigionia fuori città al campo di sterminio. Posai delle targhe per terra lungo il loro percorso fino alla stazione da cui erano partiti. Una signora anziana mi fermò dicendo: bello, solo che qui gli zingari non ci sono mai stati. I sinti sono stati a Colonia per secoli, il 90% era cattolico, la maggior parte era integrata, vivevano nelle case, erano i vicini. Ma il loro ricordo era stato cancellato. Ho pensato fosse urgente fare un lavoro sulla memoria della deportazione, così sono nate le pietre d’inciampo. Ridare un nome alle vittime, come dice il Talmud: “Una persona viene dimenticata soltanto quando viene dimenticato il suo nome”».