DAILY LA PAROLA

Pupu

La Sicilia è la terra dei pupi, una tradizione secolare patrimonio dell'Unesco. La parola evoca storie che si perdono nella notte dei tempi e che rendono Trinacria ancora più affascinante

La parola siciliana pupu (pupo) deriva dal latino pupus. È facile capirla, ma è difficile coglierne il significato, quando, nel gergo dialettale, si esprime a sinonimo di parole italianizzate come: burattinu, manichinu, bambulottu, fantòcciu, ecc.

Il pupu per antonomasia risale alla tradizione culturale de l’òpra ‘i pupi (l’opera dei pupi) che ha arricchito la storia dello spettacolo nell’isola e non solo, tanto che di recente è entrata a far parte del patrimonio dell’UNESCO. Da sempre, nelle piazze e nei teatri, talentuosi pupàri ridanno vita alla folta schiera dei pupi siciliani scolpiti e dipinti sul legno. Con Orlando, Rinaldo, Gano di Magonza si intrecciano, con inverosimili voci narranti, le gesta epiche dei Paladini di Francia ai tempi di Carlo Magno. Manovrati abilmente con aste di ferro e cordicelle, legate nelle varie parti del corpo, riempiono la scena con le sfolgoranti armature e i fastosi costumi. I personaggi, tra l’incalzare di eroici assalti e cruenti duelli, fragorosamente stramazzano sulla ribalta, nell’eterna lotta tra Cristiani e Saraceni che sotto altre fedi e sigle aberranti ancora oggi si perpetua.

A Linguaglossa il pupu per eccellenza, è stato un manichino a grandezza naturale. Apparve in una vetrina nei primi anni Sessanta e indossava, tra l’altro, un elegante doppio petto della Marzotto, color carta da zucchero, in concorrenza con i sarti artigiani del paese. Da quel giorno il commerciante fu soprannominato ‘u pupu e ai suoi clienti si esclamava: «Beddu ‘stu vistitu, ti sta precìsu, scummèttu ca ù ccattàsti ‘nto pupu! (Bello questo vestito, ti sta perfetto, scommetto che l’hai comprato dal pupo!)».

Ironia della sorte, un altro negoziante vicino, che vendeva giocattoli e mercerie varie, si conosceva come ‘u pupìttu (il pupetto). Da lui, era facile trovare, quando la Barbie non era ancora nata, piccole pupe di pezza con tipici cappellini di paglia sulle treccine di lana e corpetti attillati di velluto su lunghe sottane di flanella, per non dire delle pupe in celluloide, bellissime bambole dalle lunghe ciglia semoventi e gli occhi verde smeraldo sotto i riccioli d’oro, che vestite di organze e pizzi ricamati, facevano mostra di sé nei salotti.

Nel monumento in piazza del Municipio, a vegliare sulle lapidi dei caduti di tutte le guerre, si innalza sontuosa la mitica pupa, così è chiamata la statua di bronzo dell’antica vestale, che con la spada sguainata solleva con la mano sinistra la Vittoria Alata a perenne memoria delle insensate umane carneficine.

A soli 5 chilometri nel vicino paese di Piedimonte Etneo, invece, un celebre pupu si erge sulla storica fontana. La bella statua di marmo fin dalla sua realizzazione è stata oggetto di scherno da parte dei forestieri, con la battuta, a volte non tollerata, tanto da finire in rissa: «’gnaziu (Ignazio) piscia ‘u pupu?». Nello stesso comune e precisamente ‘nte scalàzzi (nei tornanti) della SS 120, tra il mare e la montagna, attraeva la curiosità dei passanti una ciclopica pupa, frutto dell’arte topiaria, eseguita su due altissimi cipressi in una villa privata a sfidare fulmini e tempeste.

Spesso, le scie bianche degli aerei che si incrociano negli spazi azzurri di questa torrida estate, muovono fantastici pupi di nuvole evanescenti che raccontano storie misteriose e lentamente svaniscono nello scenario rossastro del tramonto.

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